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«Lei mi fa piangere...». Finisce così l’intervista a Giuliano Montaldo, il grande regista italiano di Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, Gli occhiali d’oro. Solo per citarne alcuni, perché Montaldo ( 88 anni) insieme a Visconti, Lizzani, Fellini, Pontecorvo ha scritto la storia del cinema italiano. E se gli viene da piangere, e a noi con lui, è perché si ricorda quei tempi: le chiacchierate, la passione, le litigate affinché anche una singola frase della sceneggiatura venisse modificata. La nostalgia è spesso cattiva consigliera, ma questa volta è dovuta, pensando alla stagione degli anni 70: i giovani, gli operai, le donne. E il cinema. Quello di Montaldo, ad esempio, che nel 1971 porta nelle sale Sacco e Vanzetti, il racconto della condanna a morte dei due italiani anarchici, ingiustamente accusati di rapina e omicidio. Siamo a Boston negli anni Venti del secolo scorso, milioni di italiani emigrano negli Usa e nel Sud America. Fanno lavori umili, duri. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vengono visti con sospetto dalle autorità locali: sono emigrati e sono anarchici, i capri espiatori perfetti. Il 23 agosto del 1927, dopo sette anni di processo, vengono condotti alla sedia elettrica e uccisi. Il film, che in Italia racconta una storia poco conosciuta, è un successo in tutto il mondo. Oggi un documentario lo ricorda: La morte legale. Giuliano Montaldo racconta la genesi di Sacco e Vanzetti, regia di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri.
Ho visto il documentario. Fa venire voglia di rivedere il film, di riviverne con lei “la genesi”.
Sì, Silvia e Giotto hanno fatto un bel lavoro di ricerca. Non era facile, ma sono stati molto bravi e ne approfitto per ringraziarli.
Quando decise di girare il film sui due anarchici italiani?
Alla fine degli anni 60, a Genova, in un quartiere operaio, Sampierdarena, andai a vedere uno spettacolo teatrale in cui si raccontava la storia di Nick e Bart. Rimasi mortificato: non conoscevo quello che era accaduto. Appena tornai a Roma, un mio amico, lo scrittore Fabrizio Onofri, mi aiutò a ricostruire la storia. Tirò fuori vecchi documenti. Sacco e Vanzetti erano innocenti, ma furono condannati e uccisi. Sono sempre stato insofferente nei confronti dell’ingiustizia e dell’intolleranza. Decisi di girare un film, ma non fu facile: ci vollero tre anni prima di iniziare.
È il secondo di una triologia contro il potere: il primo è “Gott mit uns”, il terzo “Giordano Bruno”.
Gott mit uns è del 1970, è la storia di due tedeschi che, cinque giorni dopo la fine della seconda guerra mondiale, vengono fucilati con l’accusa di diserzione. Mi fece conoscere la storia il mio amico giornalista Andrea Barbato. Giordano Bruno è del 1973. Tutto il mio cinema affronta il tema dell’intolleranza: ne Gli occhiali d’oro un insegnante omossessuale viene spinto al suicidio.
In “Sacco e Vanzetti” il potere giudiziario, alleato con il potere politico, trova i capri espiatori perfetti.
Per Nick e Bart, come venivano chiamati in tutto il mondo, essere anarchici voleva dire essere contro lo sfruttamento dei lavoratori. Le autorità di Boston si accanirono contro di loro perché volevano dimostrare che gli anarchici erano assassini. Colsero l’occasione per fare propaganda. Il processo durò 7 anni. Fu un periodo molto pesante. Soprattutto per Sacco che era sposato e aveva un figlio. Vanzetti erano molto più libero: era un uomo del Nord, meno legato alla famiglia.
Dopo il suo film c’è stata un’identificazione totale tra le persone reali e gli attori: per tutti Vanzetti ha la faccia di Gian Maria Volontè, Sacco quella di Riccardo Cucciolla. Come li ha scelti?
Volontè era un mio amico, un bravissimo attore. Era perfetto per il ruolo di Bart. Lui accettò immediatamente con grande entusiasmo. La scelta di Cucciolla fu più travagliata. Allora non era un attore famosissimo, era più conosciuto come doppiatore. Ma Sacco era pugliese come lui e io volevo restituire questa caratteristica.
Ci furono degli intoppi?
Arrigo Colombo, uno dei due produttori insieme a Giorgio Papi, di ritorno dalla Francia, dove aveva tro- vato un cofinanziatore, mi disse che Nick sarebbe stato interpretato da Yves Montand. Un grande attore, che conoscevo. Ma che non andava bene. Mi prese un colpo. Montand e Volontè si assomigliavano molto. Sarebbero stati due statue, due icone, dando una idea falsata dei personaggi. Mi opposi. E il produttore capì le mie ragioni. Anche se a malincuore, perché dovette rinunciare ai soldi francesi. Parlai anche con Montand che non se la prese.
Cucciolla vinse a Cannes, dove il film era in concorso, il premio per la miglior interpretazione maschile.
Volontè e Cucciolla erano due miei amici, due amici che purtroppo non ci sono più da troppo tempo. Quando giravamo, Volontè stava sempre in camerino. Faceva sempre così, in tutti i film. Entrava talmente nel personaggio che non se ne distaccava mai.
La moglie di Sacco è interpretata da Rosanna Fratello. Ho rivisto le scene con lei protagonista: è incredibilmente brava. Come ha fatto a capire che la cantante di “Sono una donna, non sono una santa” poteva essere una così brava attrice?
La moglie di Nick doveva essere anche lei pugliese. Chiesi un incontro a Rosanna: quando le proposi se voleva far parte del film, la sua emozione fu così intensa, che capii di non essermi sbagliato. Tutti quelli che presero parte alle riprese, anche per parti minori, lo fecero con gioia. Non chiedevano neanche quanto avrebbero ricevuto come paga, volevano solo interpretare il ruolo. Sul set, dopo anni di fatica, si creò un clima bellissimo: erano tutti convinti che il film sarebbe andato bene.
Dove ha girato il film?
Fu uno dei problemi da risolvere. In Massachusetts, nel 1970, non c’era più un mattone dell’epoca del processo. La nostra Boston diventò Dublino, il carcere lo trovammo in Jugoslavia, il tribunale a Roma. Ma avemmo la fortuna che la fabbrica, un calzaturificio, dove fu fatta la rapina e dove lavorava Sacco era rimasta intatta ( anche se abbandonata) e lì potemmo girare alcune scene. Una bella fatica!
Che reazioni suscitò l’uscita del film?
Ho ricordi molto forti. La distribuzione all’inizio era un po’ “fredda”. Pensava che le persone, non conoscendo la storia, non sarebbero andate a vedere il film. Durante il processo, ci furono manifestazioni in tutto il mondo perché Nick e Bart venissero liberati dalla gogna. In Italia no. In Italia c’era il fascismo e non se ne parlava. Da qui la scarsa conoscenza del caso così celebre in altri Paesi. Ma nonostante questo, il film ebbe un grande successo.
Ha qualche ricordo di quei giorni?
Mi emozionai molto quando in un cinema romano, che adesso non c’è più perché è stato inglobato dall’Adriano, dopo due giorni dalla “prima” ci fu una tale pressione da parte dei giovani che dovettero aggiungere una proiezione all’una di notte. E’ stato un film visto in tutto il mondo. In Argentina è uscito tre volte, in tempi diversi, tutte e tre le volte in prima visione. In Italia il successo fu dovuto anche alla ballata di Joan Baez, Here’s to you, Nicola and Bart. Era una cantante sulla cresta dell’onda, una delle più famose a livello mondiale. La colonna sonora era di Morricone.
«Here’s to you, Nicola and Bart/ rest forever within our hearts. Quefilm, sto è per voi, Nicola e Bart/ riposate per sempre nei nostri cuori...». Come nasce questo monumento della musica degli anni Settanta e della lotta all’ingiustizia?
Con Morricone ho avuto sempre un rapporto molto importante. Allo stesso tempo professionale e amichevole. Ho fatto con lui sedici colonne sonore, ho il record. Forse mi supererà Giuseppe Tornatore perché lui è più giovane e più bravo. A Morricone facevo sempre leggere la sceneggiatura: non entrava nel merito, ma mi restituiva l’emozione. Prima di girare Sacco e Vanzetti, gli dissi: «Ci vorrebbe una ballata». E lui: «Ma chi la canta una ballata in americano?». Risposi: «Joan Baez... ». «Eh la Baez...», replicò Morricone, pensando fosse impossibile. In quel momento era la più richiesta, era una vera star, soprattutto per le nuove generazioni. Poi ebbi un colpo di fortuna.
Ci racconti...
Ero andato negli Usa per cercare il materiale di repertorio da inserire nel film e passai a New York per incontrare un produttore. Volevo capire se era interessato a metterci del denaro, ma con lui non ci fu niente da fare. Mentre uscivo dall’albergo, incontrai Furio Colombo, giornalista straordinario, che era in America in quel periodo, a cui raccontai il progetto su Sacco e Vanzetti, la cui storia lui conosceva bene. Gli dissi anche che speravo di parlare con Joan Beaz. Lui mi guardò con gli occhi sorridenti e mi disse: «Stasera viene a cena da me». Corsi a prendere la sceneggiatura e gliela diedi. Beaz accettò di scrivere e cantare la canzone con la musica di Morricone. Un colpo di fortuna meraviglioso, dopo tanta fatica. La canzone, come il ha avuto un successo mondiale. L’hanno cantata e suonata ovunque nel mondo. Lo stesso Morricone la propone spesso nei suoi concerti.
Dopo il film, il caso fu riaperto ed arrivò la riabilitazione per i due anarchici italiani...
Sì è vero, grazie al film, alcuni studenti in giurisprudenza andarono a scartabellare tra i documenti processuali. Trovarono la testimonianza del console italiano a Boston che forniva un validissimo alibi per Sacco. Altre testimonianze erano invece a favore di Vanzetti: all’ora della rapina, lui era da un’altra parte. Queste prove furono ignorate durante il processo. Gli studenti di Boston portano la documentazione da Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, che nel 1977 riconobbe gli errori commessi nel processo e riabilitò la memoria di Nick e Bart. Io fui invitato alla cerimonia Che emozione prova quando oggi ripensa al film?
Ho il ricordo dell’affetto da cui fummo circondati io e mia moglie Vera, che era mia collaboratrice. Allora i giovani erano molto impegnati nella politica, non come oggi che sono molto freddi, distaccati, persi davanti al computer o al telefonino. Allora partecipavano alla vita politica con il sogno di poter fare qualcosa. Erano i mitici anni 70. Videro un film giusto per loro, perché contro l’ingiustizia. Alcuni, ancora oggi, mi dicono: «Quel film mi ha cambiato la vita». E allora lì mi preoccupo un po’... ( ride, ndr).
Vengono in mente, pensando alla storia dei due italiani anarchici, i tanti migranti che oggi arrivano in Italia. Spesso diventano anche loro capri espiatori...
Milioni di italiani, all’inizio del secolo scorso e nel dopoguerra, lasciarono il nostro Paese raggiungendo soprattutto Nord e Sud America. Venivano sfruttati, ma c’era posto per loro. Oggi il lavoro è meno per tutti. Ma restano tante attività che nessuno vuol fare. Proviamo con i migranti: adottiamoli e facciamoli lavorare. Ma, questo discorso, è come parlare al vento.
Lei è un grande protagonista del cinema italiano. Cosa rimpiange dell’epoca d’oro?
Ho collaborato con Pontecorvo, ho lavorato con Petri e con Lizzani, ho conosciuto Fellini e Visconti. Il cinema era bello, era unito, parlavamo, sognavamo. Age e Scarpelli, Scola: eravamo tutti amici. Era una cosa meravigliosa. Se ora vado a piazza del Popolo, dove ci incontravamo, non solo non trovo loro, ma non trovo nessuno che fa cinema. Sono tutti davanti al computer. Una volta la sceneggiatura si scriveva in cinque o sei, discutendo, se occorreva litigando. Ora tutto è cambiato. Sono contento di aver messo i remi in barca.
Non ha nuovi progetti?
No, perché se li avessi, non me li farebbero realizzare come vorrei. Ormai non ci sono più produttori coraggiosi. Prima facevano un film con Alberto Sordi e con l’incasso investivano su Antonioni e su Fellini. Adesso chi è che ti aiuta più? Non lo so, non li conosco. E poi sono grande.
Chi ricorda in particolare?
Penso con grande affetto a Scola, a Olmi. Penso a Petri, penso a Fellini che ho conosciuto molto bene. Sono tanti. E De Sica. Che persone meravigliose. Però così lei mi fa piangere...