PHOTO
Dopo una breve quanto incisiva incursione nel cinema con Mia madre di Nanni Moretti, che le è valsa nel 2015 il David di Donatello, il Nastro d’Argento e il Ciak d’oro, Giulia Lazzarini torna all’amore di sempre, il teatro, con Emilia, spettacolo scritto e diretto dall’argentino Claudio Tolcachir. Emilia è stata per anni la bambinaia di Walter, si è dedicata completamente a lui e alla sua famiglia. Quando il ragazzo cresce e va via di casa, i genitori la licenziano, perché divenuta superflua. Emilia decide di andare a vivere per strada. Anni dopo incontra Walter, che, legato a lei da un affetto speciale benché distratto, la porta a casa, per farle conoscere la sua nuova famiglia: la moglie Carolina e il figliastro Leo. La visita durerà più del previsto e avrà esiti inaspettati, che riveleranno la complessità dei rapporti umani, il vuoto che porta a mescolare amore e possesso. Emilia è apparentemente a casa di Walter, dove tutto avviene di nuovo, ma in realtà la vicenda è una proiezione della memoria, un racconto che lei fa allo spettatore dalla prigione in cui è finita, per coprire il delitto di Walter.
Il nome di Giulia Lazzarini si lega ai più grandi registi teatrali del Novecento, ma soprattutto a Giorgio Strehler, e a regie storiche del Piccolo, come La Tempesta, l’Opera da tre soldi, Il Giardino dei ciliegi, Giorni Felici. Con Emilia, l’attrice dà vita a un personaggio di profonda umanità, costruito con poesia.
Un tuffo nella drammaturgia contemporanea, con Emilia. Cosa l’ha spinta a questa avventura?
Ho sempre cercato un teatro che mi appartenesse per quello che mi consentiva di dire attraverso le parole. Non sono mai stata legata a un teatro di “primadonnato” o capocomicale. Penso anche a lavori molto particolari portati avanti con registi come Cobelli, Lievi, Tiezzi. Ultimamente ho realizzato due letture, una sulla figura di Rita Levi Montalcini, Le parole di Rita, e l’altra su Basaglia, Muri, un testo di Renato Sarti, che parla di quello che era il manicomio di Trieste prima e dopo Basaglia. Un tempo bastava andare in escandescenza e succedeva che chi aveva interesse di allontanarti ti faceva rinchiudere e poi non ti andava a riprendere. Dopo un mese tu rimanevi fisso, non potevi più uscire. Quindi gente che aveva magari un momentaneo disagio, rimaneva bloccata per sempre… e quante vite sono andate perdute. Mi interessa molto portare sulla scena testi mirati, che parlino di personaggi non inventati, ma reali, che però sono così meravigliosi da sembrare di fantasia.
E Emilia?
Anche Emilia è esistita, poi è stata tradotta drammaturgicamente da Claudio Tolcachir. Io avevo visto un allestimento del testo in una rassegna che il Piccolo fa spesso di drammaturgia straniera innovativa. Quando con il direttore del teatro di Roma, Antonio Calbi, cercavamo un personaggio che fosse giusto per me, mi è tornata in mente. Io ho sempre interpretato figure importanti, ma tenui, mi pare. Personaggi umani, ma quasi senza età, che hanno in sé una componente infantile, innocente.
Forte in Emilia è la tematica dell’amore cui si accompagna anche quella della giustizia. Quali sono i limiti tra queste due istanze secondo Giulia Lazzarini?
Alla fine del primo monologo Emilia ha un bel dubbio, si dice: «Dio mi capirebbe per quello che ho fatto, forse mi assolverebbe anche. Ma la giustizia no. Per la giustizia sono colpevole e quindi sono in prigione». Mette in dubbio anche la sua fede. Si sente nelle mani di una società che non considera un atto d’amore quello che lei ha fatto, sa di non avere attenuanti di fronte agli altri, ma di fronte a se stessa sì: vive l’essersi presa la colpa di un’altra persona come atto di generosità. Secondo me Emilia è convinta che il crimine compiuto da Walter sia stato un incidente, che lui non volesse farlo. Penso che lei abbia giustificato questo atto tremendo. La scena è come un crocicchio a cui arrivano le strade dei personaggi. Ciascuna porta qualcosa, ma si aggrovigliano, perché non si intendono.
Sul piano teatrale, il doppio livello della memoria e del presente crea difficoltà all’attore e allo spettatore?
Lei è dentro la vicenda ricordata, ma sempre con uno sguardo di attenzione per quello che sta succedendo. Ed è bellissimo, perché il regista e autore non ha voluto collocarla in una situazione distaccata, no. Quando lei racconta, a volte torna al presente della prigione, dice: «Io sono qui in prigione, vedi. Prendo i bambini delle altre, me li tengo stretti». Anche lei ha questa necessità di amore, malsano se vogliamo, perché troppa protezione non fa bene. Però è un amore che lei vuol dare ai bambini, a chi cresce, vuole essere vicina, capire le esigenze degli altri, come quelle di Walter. Basta un attimo che ritorna dentro, ma è un dentro e fuori che il pubblico ha accettato, segue.
Emilia sembra un’antica nutrice. Ci sono altri ruoli della sua carriera che l’hanno ispirata nella costruzione del personaggio?
Sì. Ci ho pensato strada facendo. Per esempio Varia, del Giardino dei ciliegi: adottata, ma figlia di contadini, che è rimasta lì nella famiglia del giardino, accudendola, occupandosi della casa. Quando il giardino dei ciliegi viene abbattuto, questa donna non sa dove andare, perché non è più nulla, non è più nessuno, era qualcuno quando governava una casa di altri. Ma penso anche a Donna Rosita Nubile, in cui interpretavo una governante il cui destino è legato alla casa in cui lavora.
Strehler dove è quando lei si lancia in una nuova avventura teatrale?
Dove è? È sempre presente. Quello che lui mi diceva l’ho tutto accumulato, anche a volte non capito, non recepito subito, messo lì. Come diceva Strehler: «Mettete tutto nel sacco, non importa che capiate subito. Ascoltate. Capire viene dopo». E io ho ascoltato molto.
Un messaggio che il teatro è importante veicoli oggi?
Serve la generosità, l’attenzione agli altri. Bisognerebbe imparare che i problemi degli altri sono anche nostri, che tutto può capitare anche a noi. Identificarsi in modo umano, con quella pietas giusta, con quella accoglienza. Ecco, quello che manca oggi. Il teatro cerca di scaldare i cuori rattrappiti. È vero o no? È difficile. Però c’è una voce vera che parla a un orecchio vero che ascolta. La televisione la spegni e fai altre cose, mentre a teatro la voce la ascolti. A volte resta qualcosa, più che se vai al cinema. Se la voce è convincente, certo, se il testo ha un qualcosa, resti toccato di più. Poi ci sono testi, come le opere di Shakespeare, che ti dicono sempre qualcosa. Perché Romeo e Giulietta non è attuale? Questa continua rivalità. Ricordo anche quando facemmo l’Opera da tre soldi con Strehler. Era un testo attuale, le canzoni di Kurt Weil erano delle sassate e le parole di Brecht arrivavano giù in platea. Colpivano giusto. Oggi è più difficile, la gente ha molti scudi.