Il verdetto è storico, perché potrebbe essere l’ultimo del suo genere. E perché si applica a una donna di 99 anni, Irmgard Furchner, finita alla sbarra tre anni fa per il suo ruolo di stenografa nel campo di concentramento nazista di Stutthof durante la Seconda guerra mondiale.

Segretaria nell’ufficio del comandante delle SS Paul Werner Hoppe dal 1943 al 1945, Furchner era ricorsa in appello contro la condanna a 2 anni con pena sospesa inflitta nel 2022 da un tribunale statale di Itzehoe, nel nord della Germania. Ma oggi la Corte federale di giustizia di Lipsia ha respinto l’istanza e confermato la sentenza, che diventa definitiva. L’accusa? Complicità nell’omicidio di oltre 10mila persone e di tentato omicidio in cinque casi: per i pm, l’ex stenografa era al centro dell’apparato di morte messo in atto nel lager vicino all’attuale città polacca di Danzica, ben consapevole dell’orrore che aveva luogo nel campo con l’uccisione sistematica dei prigionieri.

Una tesi opposta a quella della difesa, per la quale è invece impossibile dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che la donna fosse davvero consapevole di ciò che accadeva a Stutthof, e che ne fosse quindi complice. Tanto più che all’epoca dei fatti Furchner aveva 18 anni, motivo per il quale è stata giudicata da un tribunale minorile. «È inimmaginabile che non si sia accorta di nulla», sostiene l’accusa, con un’argomentazione accolta sia dal tribunale che dalla Corte di ultima istanza della giurisdizione tedesca. La quale era chiamata ad esaminare la corretta applicazione della legge, senza entrare nel merito della vicenda. Diversamente dai giudici di Itzehoe, che per verificare i fatti si erano recati anche a Stutthof.

Dalla visita era emerso, a parere dei magistrati, che la donna avesse avuto modo di assistere ai crimini commessi ogni giorno nel campo da un luogo privilegiato, seduta alla finestra del suo ufficio. E che avesse quindi favorito quegli omicidi battendo a macchina gli ordini di esecuzione siglati con le proprie iniziali. Gli avvocati difensori sostengono che la donna ignorasse quale fosse la sorte dei prigionieri, sottolineando che quegli ordini fossero impartiti con una terminologia in codice. Ma il tribunale non ha dubbi: è certo che Furchner «sapesse e che, attraverso il suo lavoro come stenografa nell’ufficio del comandante del campo di concentramento di Stutthof dal 1 giugno 1943 al 1 aprile 1945, sostenesse deliberatamente il fatto che 10.505 prigionieri furono crudelmente uccisi dalle camere gas e dalle condizioni ostili del campo».

Inizialmente punto di raccolta per ebrei e polacchi non ebrei allontanati da Danzica, Stutthof fu successivamente utilizzato come “campo di educazione al lavoro” dove i prigionieri, principalmente cittadini polacchi e sovietici, scontavano condanne spesso equivalenti alla morte. Dalla metà del 1944, decine di migliaia di ebrei provenienti dai ghetti dei Paesi Baltici e da Auschwitz riempirono il campo, insieme a migliaia di civili polacchi travolti dalla brutale repressione nazista della Rivolta di Varsavia. Tra gli altri detenuti vi figuravano prigionieri politici, omosessuali e testimoni di Geova. Più di 60mila persone furono uccise con iniezioni letali, fucilate o fatte morire di fame.

Il caso contro la 99enne si è basato quasi interamente sulle dichiarazioni di decine di querelanti, tra sopravvissuti e familiari delle vittime, in cerca di giustizia a distanza di quasi un secolo dai fatti. Al centro dell’attenzione internazionale per delicatezza della materia ed età dell’imputata, il processo ha sollevato dibattiti e polemiche anche in Germania, nell’ambito del diritto, che si è interrogato sull’opportunità di avviare simili procedimenti a distanza di decenni, nei confronti di persone molto anziane, in condizioni di salute spesso incompatibili con lo svolgimento di un processo, e non coinvolte direttamente nei crimini contestati. Ha senso punirli ora, quasi centenari?

La condanna, in verità, ha più che altro valore simbolico, e difficilmente contempla il carcere, per ovvie ragioni di età. Nel caso di Furchner, la donna è stata ritenuta idonea al processo. E dopo un tentativo di fuga rocambolesco nel 2021, quando ha tentato di raggiungere in taxi una stazione della metropolitana nella periferia di Amburgo, è stata arrestata e condotta in aula, dove ha espresso il proprio pentimento per gli anni passati a Stutthof.

La sua vicenda ha fatto particolare scalpore perché sono pochissime le donne perseguite dalla giustizia per gli orrori nazisti. E perché il verdetto nei suoi confronti potrebbe essere l’ultimo ad affrontare quegli omicidi di massa. Nel 2021 era toccato a un altro centenario, ex guardia nazista nel campo di Sachsenhausen, alle porte di Berlino. Uno dei tanti casi resi possibili, negli ultimi anni, dal precedente stabilito nel 2011 con la condanna a cinque anni di reclusione nei confronti di John Demjanjuk per complicità nell’omicidio di migliaia di prigionieri nel campo di sterminio di Sobibor.

Identificato come il “Boia di Treblinka”, Demjanjuk venne estradato in Israele dagli Stati Uniti a fine anni ’90. Gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto lo riconobbero in aula come “Ivan il Terribile”. E l’avvocato che lo difese, Yoram Sheftel, anch’egli ebreo, fu insultato, minacciato, e trattato come un traditore, ma portò avanti il proprio compito senza esitare.

Condannato a morte e poi assolto dalla Corte suprema israeliana, che rifiutò di perseguirlo, Demjanjuk è morto nel 2012, prima che il suo appello, in Germania, potesse essere valutato. Ma il suo caso ha fatto scuola: se prima i tribunali tedeschi richiedevano all’accusa di presentare prove concrete della partecipazione di una ex guardia a un omicidio specifico, nel processo a Monaco di Baviera è stato sufficiente dimostrare la collaborazione dell’imputato all’interno del campo ai fini della sua condanna. Di quelle che in Germania chiudono i conti con la Storia.