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La musica quando è suonata bene è un piacere!
Qualche giorno fa mi chiama Tato, uno di quei compagni di adolescenza che vedo una volta ogni cento anni, ma le rare volte che passiamo una serata insieme è come se ci fossimo visti l’altro ieri.
Mi dice: «Ho un biglietto per Pat Metheny, andiamo?» Negli anni della mia formazione musicale seguivo Metheney, poi per tanti motivi l’ho perso di vista, ma ogni volta che qualche musicista mi faceva ascoltare un nuovo disco tra me e me pensavo: «Minchia, che genio!», però non ero mai abbastanza motivato da voler approfondire. Ma l’idea di passare una serata col mio vecchio amico a vedere un concerto stellare mi solletica e quindi accetto. Arriviamo all’auditorium e di comune accordo, in ossequio ai vecchi tempi ci facciamo un corposo aperitivo. Ogni volta che nella sala S. Cecilia ho visto in galleria un concerto di musica elettrificata l’acustica, nonostante i celebrati pannelli semoventi in ciliegio, non è mai stata tra le migliori. Si narra, nel piccolo mondo dei musicisti romani, che una delle possibili cause sia il fatto che non ci sia nessuno in grado di capire come vadano spostati di volta in volta per ottimizzare il tipo di proposta che proviene dal palco. Ci sediamo e dico: «Bisogna scoprire assolutamente con chi suona», il tipo davanti a me mi sente, si gira e mi guarda indignato.
Alle 9: 15 sale sul palco Pat con la consueta maglietta bianca a righe orizzontali. Ora, nella vita ci sono poche certezze e sono cambiate molte cose dall’ultima volta che l’ho visto: all’epoca il grunge furoreggiava, i Fugees non erano ancora notissimi al grande pubblico e gli Iron maiden avevano tutti i capelli lunghi. Pat Metheny invece, a memoria d’uomo, sembra aver fatto il patto col diavolo: «Ti do l’eterna giovinezza a patto che tu indossi sempre una maglietta bianca a strisce colorate orizzontali» . Prende una chitarra e inizia un brano da solo, molto articolato. A un certo dà delle plettrate con la mano destra in una zona dove a ragion di logica non dovrebbero esserci delle corde ( sono troppo lontano per mettere a fuoco), poi mi ricordo una foto in un intervista in cui spiegava questo nuovo strumento e le sue possibilità con cui ora ci sta ammaliando. «Minchia, che genio!».
Sale il gruppo, ancora non so i nomi. Iniziano a suonare e... sono fantastici! Si sente così così, le note del basso impastano un po’, la chitarra è forse un tantino alta, ma si sa come sono i chitarristi... anche quando sono dei geni. Il piano invece non si sente proprio. Stanno improvvisando su un tempo dispari come se stessero bevendo un bicchiere d’acqua. I tempi dispari sono quella cosa che, se non sei un cresciuto nelle zone rurali dei balcani, spezzano la musica e il ritmo in un modo totalizzante. Il mio amico Pino, valente contrabbassista, una volta mi disse: «Ogni volta che ho provato a fare un fill ( variazione ritmico melodica) su un tempo dispari mi sono sempre perso» e io ripensai a quando avevo suonato Jesus Christ Superstar, che pullula di momenti in 5\ 4 e 7\ 4 e gli risposi: «Questa è la cosa più intelligente che io abbia mai sentito». Ecco sul palco loro per quanto mi riguarda stanno suonando in 17\ 33, un attimo sono in 4 e poi in 11\ 13.
Finalmente al primo solo di piano il fonico si accorge che è troppo basso e lo alza un pochino. Il pianista fà un solo strabiliante. Chissà come si chiama?
La bassista suona come quasi tutti i bassisti di Metheny ( anche se ovviamente in una carriera così lunga ci sono delle eccezioni, penso a Jaco Pastorius, ma anche a Mark Johnson solo per citare i primi che mi vengono in mente): accompagnano da Dio, i soli sono melodici ma mai inutilmente virtuosistici. Si sente che se volessero farlo potrebbero distruggere il mondo a morsi, ma per qualche motivo preferiscono restare in ambito più melodico.
Il batterista ( all’uscita ho capito che era Antonio Sanchez, un automa celebre anche per essere l’autore della colonna sonora di Birdman), come tutti i batteristi di Metheny dai tempi degli esordi con Bob Moses o Danny Gottlieb è una belva assettata di sangue.
A un certo punto partono con un pezzo free ( senza schemi), o almeno credo sia free perché nella confusione più totale sono in grado di ritrovarsi in alcuni momenti tutti insieme «no, non è free», in cui alternano delle fasi di improvvisazione collettiva «deve essere free per forza», con altre a coppia «è impossibile che sia free... boh» : chitarra e batteria, piano e basso. Mostruoso!
Poi una ballad in trio ( il pianista è uscito). Il pubblico lo riconosce e alla seconda battuta del tema applaude contento. Questa cosa invece mi fa pensare alla unica eterna verità sul pubblico: il grosso del pubblico viene a vedere i concerti non per conoscere l’opera d’arte, ma per riconoscerla. Non coglie niente dello sforzo, degli arrangiamenti, della composizione istantanea che sta furoreggiando sul palco, vuole riconoscere qualcosa che già conosce e il concerto diventa così solo una rito di esaltazione della celebrità. Per quanto bello, a me sembrava incredibilmente più sconvolgente quello free. Posso però, da collega ( anche se riportato al calcio io sarei uno che gioca in serie D al cospetto del Barcellona di Guardiola) apprezzare la scaletta, che alterna brani più ostici e veloci ad altri melodici. E in almeno due altre occasioni il pubblico applaude tutto contento quando riconosce l’hit. Poi ci sono quelli smaniosi di far capire che seguono, che cercano di essere sempre i primi ad applaudire, sia tra un solo e un altro, sia alla fine dei pezzi non rendendosi conto che molte volte sarebbe meglio aspettare il silenzio che i musicisti cercano sul palco e che, a pieno titolo, fa parte della musica.
Metheny si cimenta poi in un duo con ciascuno dei membri del suo gruppo. Qui la contrabbassista mostra di che pasta è fatta. Chissà come si chiama? E il fatto che prenda il Si bemolle per un paio di volte, non dico stonato, ma lievemente impreciso la rende ancora più umana e bella ai miei orecchi. Sposami.
Poi vieni il turno del duo col pianista. Diamine, questa la conosco ( si tratta di un brano sul primo disco del Pat Metheny Group, il titolo non lo ricordo, ma tanto a voi non cambierebbe nulla saperlo), che faccio applaudo per primo? Decido di no, ma comunque la riconoscono anche altri e l’applauso parte.
E infine il duo col batterista: fantascienza cui il pubblico tributa un ovazione. Come spesso capita, si vede che tra il pubblico i batteristi sono più numerosi.
La confortante dilatazione delle percezioni a dovuta allo spritz si è ormai dissolta è chiaro che sarà l’ultimo pezzo e poi un bis, presumibilmente di due pezzi: uno lui con solo la chitarra e uno con tutto il gruppo. Così è. La genialata è che il pezzo da solo è una suite pensata per nascondere i suoi tre pezzi più famosi. Parte accennando Minuano, disserta liberamente, a un certo punto mi pare di intendere un accenno del tema di Last train home, ma poi va da un’altra parte che porta a This is not America ( frutto di una collaborazione con David Bowie) e poi, ora sì, conclude con Last train home.
Qui addirittura uno del pubblico, forse memore del coglione che urla «yeah man!» al gruppo di Miles Davis in My man is gone sul disco del suo rientro dopo la disintossicazione degli anni ‘ 70
We want Miles, urla «bravo!» prima ancora che abbia suonato l’ultimo accordo.
«Minchia che geni?», ma come si chiamavano?