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Elsa Fornero, ministra del Lavoro del governo Monti, è tornata ad insegnare economia politica all’Università di Torino. Di quell’anno e mezzo di governo rimangono la sua riforma pensionistica - sulla quale ancora si abbattono gli strali dell’opinione pubblica - e il salvataggio dalla procedura di infrazione dell’Unione Europea. Nell’immaginario collettivo, invece resta il senso di incompiutezza rispetto al miraggio salvifico di un governo tecnico. La crisi dei conti pubblici italiani, di nuovo sotto la lente di Bruxelles, invece, sembra non essersi mai davvero interrotta.
Professoressa, sono passati quasi quattro anni dalla conclusione del mandato del governo Monti. Il dibattito, però, è di nuovo fermo sul problema del debito pubblico. Sta tornando la minaccia europea?
Volendo ricostruire gli ultimi mesi, l’Unione Europea prima ha giustamente concesso flessibilità all’Italia per far fronte agli eventi catastrofici del terremoto, poi si è astenuta dall’influenzare il clima referendario, pur se il governo Renzi aveva sforato sui valori imposti - cosa che forse avrebbe fatto qualunque esecutivo - per cercare il consenso dei cittadini. Ora, però, il tempo è finito e l’Europa ci chiede di adeguarci alle regole imposte ad ogni stato europeo.
Il vincolo del 3%, però, viene percepito come un cappio al collo del nostro Paese...
Provando a tradurlo in termini chiari, l’Europa ci chiede di rientrare di 3,4 miliardi di euro. Ecco, per un Paese con una spesa pubblica di oltre 500 miliardi di euro, è difficile credere che non si possa trovarli. E’ anche difficile credere che sia impossibile sottrarre 3,4 miliardi alla lista della spesa pubblica, che oggettivamente non è nel pieno dell’efficienza, sia a causa di sprechi che per risorse male indirizzate. Insomma, l’imposizione non ha la valenza recessiva che molti temono e non è in discussione un ritorno all’austerità.
Sbaglia, dunque, chi sostiene che le regole europee siano un giogo dal quale è necessario liberarci?
Guardi, il punto è un altro e si può ridurre a questo: l’Italia combatte contro un debito troppo alto, che non può essere contrastato facendo altri debiti. Questo va fatto capire agli italiani: un Paese che spende più di quanto incassi lo fa a spese delle giovani generazioni. Detto questo, io credo che le regole europee possano piacere o meno ma, fintanto che ci sono, debbano essere rispettate. Prendiamo il vincolo del 3%: è una previsione che ha origini storiche, nasce dal trattato di Maastricht del 1992. Lo consideriamo sbagliato? Possiamo chiedere che venga ridiscusso, ma far parte dell’Unione Europea significa rispettare le sue regole. Del resto è evidente: se noi non le rispettiamo, avranno buona ragione anche gli altri a non rispettarle e così l’Europa rischia di sgretolarsi.
Oggi sono in molti a poterle rispondere: “e allora che si sgretoli pure”.
Chi lo dice sappia che lasciare l’Unione Europea per noi sarebbe un male incommensurabile. Oggi si parla addirittura di uscire dall’Euro, ma bisogna ricordare la storia della Lira, una moneta che non riusciva a stare sul mercato internazionale, in cui i mercati finanziari non avevano fiducia e che dunque era sempre soggetta a svalutazioni. Il risultato erano costi maggiori per le importazioni che si riverberavano sui salari, creando l’aumento dei prezzi e nuova perdita di competitività per le imprese. Ecco, la moneta unica ha spezzato questo ciclo. Si sarebbe potuto ottenere di più? Certamente, ma non è lasciando la zona Euro che si può pensare di ripristinare il benessere che sentiamo di aver smarrito.
Eppure, oltre all’Euro, l’Unione Europea ha portato in Italia anche la percezione di un mercato egemone che governa ogni cosa, a partire dalla politica.
In una certa misura è così, perché l’Unione Europea si è costituita guardando essenzialmente alle questioni economiche. Del resto, il continente veniva da una storia di guerra, violenza e nazionalismi esasperati e l’idea di unirsi a cominciare dai mercati è stato il punto di partenza di una strada che è ancora molto lunga. Forse non era la strada migliore ma è quella che abbiamo percorso e molto è stato ottenuto, non possiamo metterlo a rischio. Mi dispiace, però, che la narrazione di quest’Europa non è stata tale da convincere i cittadini che la sua disintegrazione sia una catastrofe da cui è necessario difenderci. Purtroppo le narrazioni collettive sono difficili da costruire ma si diffondono in maniera quasi impercettibile e, quando diventano dominanti, è difficile contrastarle.
A proposito di narrazioni, il governo Monti ha lasciato di sé l’immagine del fallimento dei tecnici mandati proprio dall’Europa di cui stiamo parlando. Corrisponde al vero?
Guardi, forse davvero noi tecnici non siamo capaci di comunicare, perché è emersa l’idea che quel governo rispondesse direttamente ad Angela Merkel. Una ricostruzione assurda: in quei mesi di lavoro intensissimo ho avuto rapporti con tanti ministri esteri, ma non ho mai e poi mai avuto la sensazione di lavorare in un certo modo perché ce lo chiedeva la Germania. Addirittura si è parlato di un complotto ai danni di Berlusconi: assolutamente ridicolo. Io ricordo personalmente l’augurio che lui mi fece: «Mi dicono che lei è molto brava, le auguro buon lavoro». Le sembra che me lo avrebbe detto, se si fosse sentito sbattuto fuori con la forza da Palazzo Chigi?
E dunque proviamo a dire che cosa ha guidato il vostro agire in quell’anno e mezzo.
Il senso era di agire pensando ai nostri figli. Noi volevamo dare un contenuto pieno al concetto di politica che guarda al futuro e non alle prossime elezioni, che per me del resto non ci sarebbero comunque state. Ricordo quel periodo come un tempo intensissimo: io non facevo vita di partito perchè un partito non l’ho mai avuto, ma ho passato giorni e notti tra il Ministero e il Parlamento.
Poi, però, non siete stati salutati con riconoscenza...
La nostra è stata descritta come la stagione dei sacrifici, fatta di misure che erano state demandate a noi perché gli altri non erano riusciti a portarle a termine per ragioni politiche. Alcune riforme possono essere state sbagliate, ma bisogna sfatare il falso mito che una riforma possa essere fatta estemporaneamente dall’oggi al domani. Le nostre scelte avrebbero richiesto un coinvolgimento della classe politica, che però non avevano interesse ad aiutarci proprio perché preparava il suo ritorno. Corretto, per carità, però sarebbe stato sufficiente ci riconoscessero di aver svolto il lavoro per cui eravamo stati chiamati. Invece nemmeno questo, siamo stati congedati con un “voi avete fatto una schifezza, ora torniamo noi che metteremo le cose a posto”. Cosa che non mi pare sia successa.
Parlando di governo, l’Esecutivo di Paolo Gentiloni ha definito il lavoro come punto centrale della sua attività politica. E’ ancora il lavoro il nodo cruciale del Paese?
Assolutamente, riguarda il nostro futuro di medio- lungo termine. C’è in atto una trasformazione del mercato, con i mutamenti delle modalità con cui il lavoro si svolge, la sua precarietà e la tecnologizzazione. Ciò che il governo dovrebbe fare è provare a rendere meno drammatici i costi sociali immediati di queste trasformazioni, ma soprattutto chiedersi che cosa possa permettere al maggior numero di persone in età da lavoro di trovare occupazione. Sembrano parole banali, eppure fino ad ora l’atteggiamento mentale è stato quello di voler creare occupazione per alcuni a spese di altri, facendoli uscire dal mercato. In altre parole: mandiamo in pensione qualcuno, così entra qualcun altro. Un paradigma del passato, l’idea sbagliata del cosiddetto “numero fisso”, che non porta da nessuna parte.
Arriviamo al punto dolente, le pensioni. Porta il suo nome la riforma più contestata della stagione montiana...
La mia riforma è ancora lì, e politicamente fa molto comodo mantenerla, dando ogni colpa a me. Venendo al merito, tutti dimenticano che quella riforma fu fatta in circostanze eccezionalmente gravi. Avrebbe potuto essere fatta meglio? Ma certo, se avessi avuto tre mesi e non 20 giorni sarebbe stata fatta diversamente; se avessi avuto dati migliori di quelli che ho avuto, forse certi errori e certe strumentalizzazioni si sarebbero potute evitare. Eppure voglio dire che quella riforma è stata, nel panorama italiano, il più grande ribilanciamento delle relazioni economiche tra giovani e anziani degli ultimi vent’anni. Quella riforma tanto vituperata ha sottratto dalle spalle dei giovani una grossa fetta di un debito pensionistico che prima gravava su di loro. Però, togliere un onere che altrimenti avrebbe potuto essere rinviato a domani non porta certo riconoscenza.
Lei rivendica il contenuto della sua riforma pensionistica?
Certo, la riforma ha non dico rimediato, ma comunque corretto la disuguaglianza e l’ingiustizia nei confronti delle generazioni giovani e future. Rimane, è vero, ancora un forte sbilanciamento, ma non va trascurato che le regole del sistema pensionistico di oggi riflettono molte decisioni passate e poco lungimiranti. Penso alle baby pensioni e alle pensioni retributive.
Volendo ricordare quei giorni, le sue lacrime sono diventate forse uno dei simboli del governo Monti. Le pesa sia così?
E’ stata una reazione di stress, che in quei giorni era molto forte. Ricordo la pressione di quei venti giorni di lavoro: era necessario intervenire in modo rapido per trovare i soldi per pagare gli stipendi e, per quanto io facessi, mi sentivo ripetere dal ministero del Tesoro che nulla era ancora abbastanza. Quelle lacrime sono state il frutto di tanta tensione accumulata, sommata allo scherzo psicologico di aver pensato, proprio in quel momento, ai miei genitori e ai loro tanti sacrifici.
Lei non ha mai più commentato quella sua reazione, nonostante la pioggia di critiche...
Io ho lasciato che l’interpretazione spettasse agli altri, né ho mai voluto dare l’interpretazione autentica. Quel momento di tensione è stato ciò che ho appena detto e le persone che hanno voluto credermi mi hanno vista lì, davanti alle mille telecamere. Chi, invece, non mi ha voluto credere non lo avrebbe certo fatto se anche avessi provato a dare una spiegazione razionale di quel momento di emozione.
Eppure sui giovani incombe lo spettro di una pensione che, forse, non gli potrà essere pagata per mancanza di fondi.
Il tema delle pensioni dei giovani è rilevantissimo, ma voglio dire che non si può scrivere oggi una norma che garantisca un minimo pensionistico, perché sarebbe scritta sulla sabbia. Il problema dei giovani non è la mancanza di pensione, ma la mancanza di lavoro. Se lo Stato non è in grado di dare lavoro e retribuzioni adeguate, come può fare promesse pensionistiche? Sarebbero basate sul niente. Solo un lavoro e una retribuzione adeguata sono le premesse per una pensione adeguata.
Torniamo al tema del lavoro. Che giudizio dà del jobs act di Renzi?
E’ una legge che porta avanti, sotto alcuni profili, la nostra riforma del 2012. Considero positivamente l’intervento sulla detassazione, che noi all’epoca non potemmo fare perché non avevamo le risorse necessarie. Il problema, però, è che chiude il cerchio con ciò che dicevo prima sul debito pubblico: questa misura dovrebbe essere permanente, ma ridurre stabilmente la tassazione sul lavoro significa tassare altre forme di reddito, altrimenti il deficit crescerà ulteriormente facendo crescere il debito. Un aspetto, infine, che mi spiace sia stato accantonato dal jobs act, è l’apprendistato. A mio modo di vedere era un passaggio cruciale, non solo per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma soprattutto per rendere meno diffidenti i rapporti tra mondo dell’impiego e mondo della formazione.
Anche durante il suo mandato ministeriale l’articolo 18 tornò al centro della polemica politica...
Ricordo di essere stata accusata di non aver difeso abbastanza l’articolo 18. Ecco, oggi ritengo di aver fatto in quel momento una scelta corretta, garantendo comunque una tutela rispetto a certe forme di licenziamento che, anche se non discriminatorio, considero inaccettabili sotto il profilo delle corrette relazioni industriali. Renzi, invece, lo ha sostanzialmente abolito.
Lei si è trovata a rappresentare, forse, tutto ciò che del governo Monti non è piaciuto ed è stata oggetto di contestazioni molto dure, soprattutto da parte di Matteo Salvini. Si sta allentando questa tensione intorno alla sua persona?
Sì, sta allentando. Però devo dire, poco cristianamente, che io non perdono a Salvini di aver organizzato quelle due manifestazioni sotto la casa dei miei genitori. No, quelle non le perdono perché quella non è stata una contestazione, ma puro e semplice squadrismo.
Continua a ricevere insulti e minacce, invece?
Sì, continuo a ricevere lettere e mail, molte delle quali anonime, e credo le continuino a ricevere - loro malgrado - anche tutti i miei compaesani con il mio cognome. Ora, però, il saldo sta diventato positivo in favore delle lettere che mi esprimono apprezzamento e questo è un grande conforto.
Come se le spiega, a quattro anni di distanza?
Io credo siano frutto del fatto che molte persone soffiano ancora sul fuoco: il populismo si esprime anche nel voler trovare un capro espiatorio. Ecco, per molto tempo io sono stata additata come la sola responsabile di quasi ogni problema dei cittadini italiani.
E’ stato un sollievo tornare all’università, allora?
Sì, non ho rimpianti per la mia breve parentesi politica, perché ora sono tornata a lavorare a contatto con i giovani. Del resto, il mio principio guida come ministro è stato quello di puntare a offrire una maggiore e più ampia prospettiva ai giovani. Ci sono riuscita? Lo giudicheranno gli altri.