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M’ama non m’ama, m’ama non m’ama: sfogliando margherite i dubbi dell’amore vengono svelati e il responso lo dà l’ultimo petalo. Sono forfettario non sono forfettario, sfogliando norme, circolari ed interrogazioni parlamentari e “Cu” dell’anno precedente, al contribuente, per il quale il legislatore aveva pensato una burocrazia fiscale snella e semplificata, verrà svelato il suo regime di determinazione del reddito. E quindi se il fisco lo ama.
Introdotto dalla legge 190 del 2014 e in vigore dal “lontano” 2015, il regime forfettario, in soli 6 anni di vita, ha cambiato le regole di ingaggio per ben 4 volte. Nel 2015 potevano accedere a tale regime i professionisti che avevano conseguito nell’anno precedente compensi non superiori a 15mila o 20mila euro a seconda del tipo di attività svolta e se soddisfacevano alcuni requisiti, tra cui non essere socio di società o associazioni professionali, non aver erogato compensi per lavoro dipendente superiore a 5mila euro, non aver utilizzato beni strumentali del valore, al lordo degli ammortamenti, superiore a 20mila euro e l’aver prodotto un reddito di lavoro autonomo che fosse prevalente rispetto ai redditi da lavoro dipendente e assimilati.
Nel 2016 il legislatore inizia ad allargare le maglie per l’accesso al regime e innalza il limite dei ricavi a 30mila euro e quello della contemporanea percezione di redditi da lavoro dipendente alla medesima soglia, fermi restando gli altri limiti.
Il 2017 e il 2018 sono anni di calma: forse anche grazie a qualche supporto farmacologico, il legislatore riesce a controllare la schizofrenia. Nel 2019 la parola d’ordine è flat tax, basta con questi inutili adempimenti fiscali, dobbiamo semplificare dobbiamo stupire, spariamoci qualche goccia di antidepressivo e che festa sia. Innalzamento del volume di affari a 65mila euro, rimozione della causa di esclusione del reddito da lavoro dipendente: guadagni 200mila euro di pensione e vuoi arrotondare con qualche consulenza? Non c’è problema, fino a 65mila euro paghi il 5% su una cifra a forfait che non fa cumulo con gli altri redditi. Del valore dei beni strumentali non ci interessa e nemmeno se hai costi per lavoro dipendente che superano i tuoi compensi.
Con la finanziaria del 2019 per il 2020, svanito l’effetto della massiccia dose di antidepressivi ingollati e con un vago senso di aver fatto qualche castroneria, il legislatore corre ai ripari e reintroduce qualche limite, in particolare esclude dal regime chi ha redditi di lavoro dipendente superiori a 30mila euro e chi ha spese per lavoro dipendente superiori a 20mila euro...
Se l’obiettivo era semplificare, questo balletto normativo, succedutosi nel tempo, ha fatto mancare in pieno il bersaglio: ad oggi non è nemmeno semplice capire se rientri nel regime forfettario, con tutte le implicazioni che entrare e uscire dal regime crea.
Ma quale è l’obiettivo che il fisco cerca di raggiungere? Una semplificazione fiscale per attività ridotte dove spesso, per il contribuente, l’onere per adempiere agli obblighi fiscali incide notevolmente sul risultato economico e dove il Fisco, per verificarne il corretto adempimento, ha un onere altrettanto spropositato, senza venir meno al principio di progressività dell’imposta?
E allora fissiamo un tetto di 65mila euro per tutti i redditi del professionista: se hai redditi da lavoro dipendente per 50mila euro puoi fatturare fino a 15mila, se non hai altri redditi puoi fatturare fino a 65mila e teniamo però conto di tutti i redditi, non solo quelli di pensione e di lavoro dipendente, perché allo stato dell’arte se ho 200mila euro di incassi per locazioni, magari anche con cedolare secca, posso comunque accedere al regime, con tanti saluti alla progressività dell’imposta. Scusa ma tu sei forfettario? No. Allora non ti ami.