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Finita la stagione dei diritti. A ventidue anni dal ritorno di Hong Kong alla “madre patria”, le previsioni di quanti in Occidente avvertivano l’aborto politico che si stava consumando sono divenute tragica realtà.
Chris Patten, ultimo governatore britannico dell’enclave europea in Oriente ( la superstite Macao due anni dopo, nel 1999, avrebbe avuto lo stesso destino), cedette alla “cessione” dell’antica colonia alla Repubblica Popolare cinese senza battere ciglio, eseguendo un ordine.
A venti anni di distanza
Per due decenni, sia pur guardandosi con diffidenza, i cittadini di Hong Kong ed i nuovi padroni di Pechino, hanno convissuto decentemente. L’economia florida dei nuovi acquisiti faceva gola ai satrapi rossi non immuni dalle leccornie del mercato.
Fino a quando, secondo la logica imposta da Xi Jinping, spregiudicato politicamente molto più di Deng Xiao Ping, fautore dell’economia socialista di mercato ( una bizzarria all’apparenza), ha fatto sentire il peso del suo potere ormai incontrastato a livello internazionale.
Ecco allora provvedimenti liberticidi approvati, quasi sempre all’unanimità dal Parlamento “cinesizzato” di Hong Kong. La leader comunista “in missione” ad Hong Kong, capo dell’esecutivo, Carrie Lam è stata la più strenua sostenitrice nelle scorse settimane della repressione violenta delle proteste contro la legge che prevede l’estradizione verso la Cina.
La Lam sembra che a metà giugno si sia incontrata segretamente a Shenzhen con uno dei più alti gerarchi cinesi, Han Zheng, per discutere quale strategia adottare per arginare il dissenso contro gli emendamenti alla legge sull’estradizione. La linea dura sarebbe stata pianificata in quell’occasione.
Autonomia minacciata
Tanto la repressione quanto la legge costituiscono due precedenti che minano l’autonomia di Hong Kong che vede finire la stagione dei diritti quando questi vengono reputati una minaccia dal governo.
Il trattato di “annessione” si fondava sull’assunto “un Paese, due sistemi”. A Xi Jinping sta stretto: il popolo segue un sistema, si sostiene nell’anniversario della strage di Tienanmen. Quella “lezione” impartita sulla piazza Rossa dai capi dello Stato e del Partito asserragliati tra le confortevoli mura di Zhongnanhai, la nuova “città proibita” dove dimorano gli alti esponenti della nomenklatura, è stata replicata nelle prime due settimane del mese scorso a Hong Kong e poi l’altro giorno le forze dell’ordine sono intervenute contro più di mezzo milione di cittadini.
Tra un po’ toccherà a Macao con la quale, al pari di Hong Kong, non è in vigore un trattato di estradizione per i sospetti. E poi l’attacco, si prevede, sarà sferrato contro Taiwan accusata di dare ospitalità ai “sovversivi”.
Dissidenti o corrotti?
Da Pechino si fa sapere che il provvedimento intende colpire i funzionari corrotti, ma si fa presto a qualificare come tali i dissidenti, soprattutto coloro che hanno trovato ospitalità a Hong Kong, Macao e a Taiwan prima di fare la fine dello scrittore Liu Xiaobo, morto nel 2017 da detenuto, dopo indicibili sofferenze, nell’ospedale di Shenyang: ultima vittima di Tienanmen; nel 1989 si trovava negli Usa e tornò in patria per prendere parte alle manifestazioni di protesta. Cominciò così il suo calvario.
Le proteste ad Hong Kong
I cinquantaquattro feriti ed i molti fermati due giorni fa, nel tentativo di irrompere nel Palazzo dell’Assemblea legislativa, hanno fatto aprire gli occhi agli occidentali che fin qui non avevano dato peso alla vicenda. Ma le richieste di maggiore democrazia non sembrano destinate a suscitare gli effetti sperati nel cosiddetto “mondo libero”.
Tra la conquista dell’Africa, la Via della seta, l’Opa lanciata sul variegato mondo centroasiatico, la “tutela” della Corea del Nord ed il tentativo di fare del Mediterraneo un “protettorato” economico, la Cina di Xi Jinping non s’impensierisce per quanto accade ad Hong Kong.
I timori di Taiwan
Taiwan teme Pechino. La campagna elettorale ne registra il pericolo, mentre la presidente, Tsai Ing- wen, che punta al secondo mandato cerca ascolto in Occidente, ma non lo trova.
Nel discorso di fine anno Xi Jinping, ha esplicitamente parlato della riunificazione di Taiwan come un obiettivo a cui Pechino non avrebbe mai rinunciato, anche con il ricorso all’uso della forza militare. La formula? Quella giocata ventidue anni fa: «Un Paese, due sistemi».
Peccato che Taiwan, a differenza di Hong Kong, è un nemico assoluto. E Xi Jinping ha gioco facile nel Mar Cinese che ormai domina incontrastato. Tra quanto l’assedio di Taipei ed una bella conferenza internazionale che incorona l’imperatore rosso?