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Giustizia, tribunale di Milano
«Nello spazio telematico si sacrifica scientificamente il 70/80% delle informazioni normalmente percepite dall’individuo attraverso il linguaggio del corpo; basterebbe già solo questo per affermare che il cambiamento che si prospetta all’orizzonte sarà una svolta infelice». La frase tra virgolette rappresenta solo un passaggio di un lungo documento pubblicato dalla Commissione linguistica giudiziaria della Camera penale di Roma, che ha “smontato” il processo penale da remoto - pensato per superare l'emergenza coronavirus -, evidenziandone tutti i limiti linguistici. Un’analisi semiotica che va ben oltre l’efficacia ovvia del linguaggio - centrale in un processo orale - per addentrarsi in quella che, agli occhi dell’avvocatura, appare come una vera e propria decostruzione del diritto alla difesa. Il processo da remoto, insomma, sfronda l’intervento del difensore di momenti vitali per la difesa stessa: prosodia, prossemica e cinesica, che gonfiano le arringhe e tutti gli altri interventi degli avvocati di sensi ed efficacia. A danno di coloro che rappresentano e, dunque, di un diritto sancito dalla Costituzione. Il nuovo modello processuale, si legge nel documento, incide così necessariamente «sul corretto accertamento del fatto», attorno a cui ruota l’intero dibattimento. Partendo da un ridimensionamento della discussione orale, che rappresenta «un determinato modo di organizzare tutta la struttura del processo». Che è soprattutto - e non anche - dialogo, aspetto da cui deriva l’esigenza di abbreviare le distanze tra i protagonisti dello stesso. L’efficacia del metodo dialettico consiste proprio nella formazione delle prove dinanzi al giudice «consentendo a quest’ultimo di averne una diretta percezione e di istituire un più genuino collegamento tra l’istruttoria e il giudizio finale». L’oralità è il punto di contatto tra il giudice e la fonte di prova, «così da poter percepire direttamente egli stesso elementi irripetibili e non riproducibili in un verbale o in una trascrizione e che non potranno essere colti tramite un collegamento via etere da remoto, quali il tono della voce, il contegno tenuto, le eventuali incertezze o esitazioni, tutti elementi necessari e imprescindibili per vagliare la credibilità del dichiarante e, quindi, per accertare correttamente il fatto e giungere ad un equo giudizio», scrive la Commissione. E non si tratta di un principio astratto: anche la Corte di Strasburgo riconosce e garantisce il principio di oralità e immediatezza «in quanto espressione del diritto dell’equo processo», affermando che «coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza degli accusati devono in linea di principio essere in grado di sentire i testimoni e di valutare la loro attendibilità in prima persona. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni». Insomma: la compresenza nel medesimo luogo fisico, per la Cedu, è fondamentale affinché possa parlarsi di giusto processo. Ma con le udienze da remoto viene meno anche un altro principio: la pubblicità del processo. Un processo il cui attore principale - l’imputato - rimane oltretutto relegato a figura di sfondo. «La pubblicità - scrive la Commissione - deve garantire la trasparenza e la presenza del pubblico funge da deterrente, anche per i comportamenti “inconsueti ed autoritari del giudicante”». Ed ecco, dunque, che un dibattimento a distanza rischia di eliminare le garanzie processuali, con il rischio concreto «di un aumento degli errori giudiziari, una piaga del nostro sistema, spesso taciuta e silenziata». Ed è ancora una volta la Corte europea a sottolineare che la pubblicità del dibattimento «è principio volto a tutelare i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico e rappresenta così uno degli strumenti per contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali». Il monitor aumenta le distanze tra chi parla e chi ascolta, mettendo al centro la sola immagine di chi, in quel momento, ha la parola. E ciò impedisce «di percepire adeguatamente i soggetti ascoltatori, di verificarne lo stato dell'attenzione, nell'oblio del costante insegnamento della linguistica», problemi ingigantiti dalle possibili interferenze di natura tecnologica. L’uso di una piattaforma informatica, inoltre, «riduce l’immediatezza, il ritmo, la velocità e la spontaneità dello scambio comunicativo», minacciato anche dalla durata dell’attenzione - naturalmente ridotta - davanti al monitor, trasformando chi ascolta in un soggetto «ricettivo-passivo». E a ciò si aggiunge la mancanza di elementi paralinguistici, che si tradurrà in un linguaggio più conciso, con una semplificazione del linguaggio che potrebbe tramutarsi «in un impoverimento dell'atto comunicativo». E non si tratta di semplici scelte stilistiche, bensì dell'esigenza «di dare forza comunicativa al discorso, il quale nel processo penale è di tipo persuasivo e argomentativo, del tutto opposto a un modello plasmato su una elencazione meccanica di dati». Ma c’è anche la questione dello spazio, l'aula, all’interno della quale il giudice rappresenta l’arbitro delle interazioni, il regista, colui che ha in mano la gestione del turno di parola, da sempre attività di negoziazione. «Con la remotizzazione del processo vi è un rischio evidente - continua il documento -: la gestione del contraddittorio potrà avvenire mediante meccanismi meno graduali, meno negoziabili e più immediati». E il ruolo di regista si limiterà ad una concessione o meno della loro stessa voce agli interlocutori. «In definitiva, il processo penale determinerà un inaridimento della complessità comunicativa tra i soggetti partecipanti al processo, con evidenti conseguenze sul piano dell'effettività del diritto di difesa», si legge ancora. D’altronde, anche l’articolo 146 bis del codice di procedura penale «chiarisce l'importanza fondamentale della dimensione non verbale della comunicazione in aula, disciplinando quale debba essere la collocazione all'interno dell'aula della persona sottoposta a esame», ovvero in modo da «consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti». Garanzia che con l’udienza da remoto viene meno. Lo spazio tra le parti e il giudice “consente loro di osservarsi reciprocamente e di verificare che la partecipazione al contraddittorio avvenga secondo modalità corrette». Effetti negativi ancora più gravi nei casi in cui a testimoniare sono soggetti deboli, per i quali la comunicazione non verbale non è affatto secondaria, «ma costituisce un canale che spesso sostituisce quello verbale. I soggetti socialmente più svantaggiati - continua la relazione - rischiano di non essere adeguatamente compresi e ascoltati nel corso di un'udienza a distanza, ampliandosi così il loro svantaggio sociale». Infine, a risentirne sarà la difesa d’ufficio: il processo da remoto amplificherà la distanza genetica tra un indagato e un difensore che non ha un mandato fiduciario. «Nel processo da remoto verrebbe meno la stessa dimensione empatica della comunicazione tra avvocato e assistito», così come non sarà possibile garantire ad un imputato alloglotta un contatto continuativo con l’interprete e il difensore, «relegando l’effettività della difesa a mera dichiarazione di principio e rendendo i diritti illusori» e riducendo «il contraddittorio a mera parvenza virtuale».