I media ne parlano come il “Donald Trump dell’Asia” anche se lui preferisce farsi chiamare “il castigatore”. Un accostamento, quello con il candidato alla presidenza Usa, che però non rende ragione al personaggio. Al confronto di Rodrigo Duterte il tycoon newyorkese ha infatti il garbo di un padre costituente, la finezza di un filosofo del diritto, il contegno di un’educanda svizzera. Qui siamo decisamente oltre; stiamo cioè parlando di uno che una volta ha definito Papa Francesco «grande figlio di puttana» perché durante la sua visita pastorale il traffico della capitale era andato in tilt; o che si è vantato di aver fatto eliminare tanti criminali «dar far ingrassare i pesci della Baia di Manila». Tra le decine di gaffe la più sgradevole riguarda lo stupro e l’uccisione di una missionaria australiana avvenuto nel 1989 durante una rivolta carceraria: «Quando ho visto il suo bel viso in foto mi sono detto “che peccato! ”, avrei dovuto partecipare anche io, anzi avrei dovuto passare per primo». Dichiarazioni scioccanti che gli sono valse diverse denunce per incitamento allo stupro da parte delle associazioni femministe e di difesa dei diritti umani. Lui si è giustificato dicendo che era una semplice battuta di spirito, che ha sempre amato le donne tanto da avere «tre fidanzate» oltre alla moglie.Volgare, minaccioso, senza freni inibitori, il nuovo presidente delle Filippine, eletto con il 39% dei voti ai danni del candidato governativo Max Roxas, riesce a trasportare il populismo in una dimensione estrema e a farne quasi una forma d’arte. Di sicuro ci ha costruito intorno tutta la sua carriera politica e a 71 anni è riuscito issarsi al vertice dello Stato asiatico. La campagna elettorale è stata un best of del suo repertorio; ha promesso e di «riempire le camere mortuarie di delinquenti», di «chiudere il Parlamento» se i deputati non gli obbediranno, di offrire una ricompensa di 125mila dollari a chiunque uccidesse un capo di una gang, premio aumentato a 150mila dollari se gli verrà portata «la testa in un sacco di ghiaccio». E naturalmente ha avvertito i compatrioti di «dimenticare i diritti umani» perché con lui a capo nelle Filippine «scorrerà molto sangue». Se non riuscisse a portare avanti il suo programma gli elettori avranno però il diritto di sparargli «in fronte».Sindaco per oltre 20 anni di Davao (quarta città del Paese), capoluogo dell’isola dei Mindanao martoriata da altrettanto tempo dagli attacchi jihadisti di Abu Sayaf, Duterte ha fatto della guerra al terrorismo, ai trafficanti di droga e alla criminalità una vera e propria bandiera, tanto da meritarsi l’appellativo di “ispettore Callaghan”. Durante il suo governo il tasso di crimini si è drasticamente ridotto ma è stato accusato di aver creato degli squadroni della morte che avrebbero ucciso oltre mille persone, tra cui anche dei bambini di strada, come emerge da un rapporto della ong Human Right Watch. Duterte non nega né conferma, si è limitato a dire che «i criminali assassinati sono sempre troppo pochi», ma nessun giudice è mai riuscito a dimostrare la sua diretta implicazione nelle squadracce.Ora che Duterte è stato eletto bisognerà fare attenzione agli stereotipi, ai riflessi condizionati; gli outsider sono spesso imprevedibili. E contraddittori. Un piccolo esempio: chi conosce le posizioni di Duterte sui diritti degli omosessuali? Ragionando in modo schematico si potrebbe pensare a una schietta e conclamata omofobia, tipica del macho impenitente. Ebbene, nulla di più sbagliato: da sindaco di Davao ha infatti approvato una legge contro le discriminazioni sessuali, e lottato contro il bullismo anti-gay che imperversa nelle scuole. Uno dei suoi migliori amici è il conduttore televisivo transgender Vice Ganda, che spesso lo invita nelle sue trasmissioni. In una di queste ha condannato duramente il pugile “eroe nazionale” Manny Pacquiao per il quale «i gay sono peggio degli animali», spiegando che «anche chi sta nel mezzo» è una creatura di Dio e dichiarandosi favorevole al matrimonio tra persone dello stesso sesso.