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LaPresse
Novantasette donne uccise. Anche nel 2024, la violenza di genere non è passata di moda. Tanto che una donna su tre dichiara di averne subito almeno una volta nella propria vita. E mentre le facciate dei palazzi e le panchine si tingono di rosso e le piazze si riempiono di striscioni, il colore dell’indignazione sbiadisce, giorno dopo giorno.
Ne è prova il fatto che per il 30 per cento dei giovani la gelosia è una dimostrazione d’amore, percentuale che sale al 45 per cento tra i 14-15enni, secondo la ricerca “Giovani Voci per Relazioni Libere”, condotta da Differenza Donna tra ragazzi e ragazze tra i 14 e i 21 anni. Il sintomo di una deriva culturale ed educativa che rende il problema tutt’altro che superato. Nel 2023, i femminicidi hanno costituito quasi il 36 per cento di tutti gli omicidi, con 17.789 casi di maltrattamenti familiari, 12.061 atti persecutori e 5.421 violenze sessuali. I dati mostrano che la violenza avviene principalmente nell’ambito familiare e della coppia, con il 41% degli omicidi compiuti dai partner attuali e il 12,8% da ex partner.
Gli uomini sono responsabili del 93,3% degli omicidi, mentre le donne rappresentano solo il 6,7%. In Italia, le donne sono uccise dai partner o ex partner nel 51,5% dei casi, mentre le straniere nel 68,7%. I femminicidi costituiscono l’82% degli omicidi delle donne. Per quanto riguarda la sicurezza, le donne si sentono significativamente più insicure rispetto agli uomini, con una maggiore propensione a evitare di uscire di sera per paura.
Nel 2023, l’omicidio di Giulia Cecchettin ha scosso profondamente l’Italia, riaccendendo un dibattito che si ripete con una preoccupante frequenza: ogni circa tre giorni, statistiche alla mano, una nuova tragedia familiare riporta la violenza di genere all’attenzione pubblica.
Senza alcun esito, se non quello di inneggiare alla gogna, alla castrazione chimica, alle torture fisiche e all’inutilità del processo, che tanto non serve. Un dibattito impregnato, per buona parte (e in buona fede, per una certa percentuale), della stessa cultura paternalistica che lo genera: le donne non si toccano nemmeno con un fiore. Perché diverse, fragili, da proteggere. Ovvero, ancora una volta, subalterne.
E quando gli uomini sono violenti, se non sono dei mostri (dunque un’eccezione), la colpa è delle madri, che non li hanno saputi educare. Copyright della deputata leghista Simonetta Matone. La violenza di genere è vista come un problema eccezionale, legato a individui devianti, piuttosto che come un fenomeno sistemico. Ad ogni nuovo fatto di cronaca capace di suscitare l’indignazione collettiva e non tutti hanno questa dignità -, la proposta è sempre la stessa: “pene più dure”.
È un mantra tutto italiano, qualunque sia il fenomeno da debellare, dai furti in casa alle botte agli infermieri. Un antidoto a costo zero che sembra risolvere il problema, ma che in realtà non cambia nulla. Studi scientifici hanno dimostrato infatti che l’aumento delle pene non riduce la violenza. Ad esempio, uno studio condotto da Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell’Università Bicocca, ha mostrato che la “tolleranza zero” non riduce i crimini violenti, anzi, in alcuni Paesi con pene severe, come quelli che ricorrono alla pena capitale, gli omicidi sono addirittura più frequenti. Negli undici Paesi che hanno abolito la pena di morte, invecem gli omicidi sono diminuiti significativamente. La conclusione di questi studi è chiara: l’aumento delle pene non ha alcun impatto positivo sulla sicurezza, ma solo sul sovraffollamento carcerario.
Eppure, il dibattito politico resta ancorato a queste soluzioni inefficaci, a dimostrazione di quanto sia difficile affrontare la violenza di genere in modo serio e profondo. La verità è che l’educazione e la prevenzione sono l’unica vera risposta al problema. E come ha recentemente sottolineato Carla Garlatti, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’educazione all’affettività dovrebbe essere una priorità, come stabilito dalla Convenzione di Istanbul, che la inserisce nei programmi scolastici sin dai primi anni di scuola. Nel 2013, l’Italia ha ratificato questo trattato, ma oltre dieci anni dopo i progressi sono minimi.
La Convenzione prevede l’inserimento nei programmi scolastici di materiali che promuovano la parità di genere, il rispetto dei diritti delle donne e la non violenza. Tuttavia, forze politiche come la Lega e Fratelli d’Italia hanno ostacolato o addirittura votato, in Europa, contro l’adozione di misure volte a integrare questi principi nella scuola. Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, non è solo una data simbolica, ma un invito a riflettere su un fenomeno che ancora oggi segna la vita di molte donne in tutto il mondo.
Sono 21.842 le donne accolte dai Centri della Rete D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) nei primi 10 mesi dell’anno. Numeri che, proiettati sui 12 mesi, arrivano a 26.210, con un incremento potenziale rispetto al 2023 di 3.125 donne. Il che significa 2.184 richieste di aiuto ogni mese, contro le 1.924 del 2023. «Anche quest’anno i numeri crescono e sempre più donne ripongono fiducia nell’esperienza e nella competenza delle nostre attiviste, rispondendo alle nostre sollecitazioni - dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re -. Sono sempre di più, infatti, le donne che decidono di uscire da situazioni di maltrattamento o violenza rivolgendosi a uno dei nostri centri, dove sanno di trovare un'accoglienza non giudicante e sicura, che garantisce l’anonimato, con la gratuità dell’affiancamento nel percorso di uscita - continua Veltri -. Questo dato ci spinge a proseguire con determinazione e tenacia la nostra azione per il contrasto alla violenza maschile, cercando anche di rinforzare le attività di prevenzione che portiamo nella società tutta, dalla scuola dell’infanzia alle piccole e grandi aziende del territorio italiano».
Secondo il “Rapporto ombra” 2024, frutto del lavoro di più di trenta tra esperte di diritti delle donne, associazioni, organizzazioni sindacali e internazionali coordinate da D.i.Re, «lo Stato italiano non ha seguito un approccio sistemico e strutturale nel colmare il gender gap. Non ha implementato politiche o strategie di investimento riguardanti il caregiving, il lavoro, l’empowerment, lo status economico, la segregazione verticale e orizzontale delle donne, gli stereotipi e la violenza contro le donne». Persiste l’inesorabile tendenza a reinterpretare e ridefinire le politiche di pari opportunità come politiche di famiglia e maternità, spiegano le esperte. Un approccio limitato che non risolverà mai il problema.