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Le lacrime di Roger Federer. Quando molti di noi hanno pensato di assistere a una finale storica, non avevano capito quanto lo fosse. Perché quei dritti incrociati a uscire erano scontati, quel servizio implacabile e quei 20 ace un’eroica conferma del suo talento, il rovescio efficace come mai forse in carriera era imprevedibile. Ma l’urlo, i salti, le lacrime e la sua tribuna in festa, quello no. Non pensavamo di vederlo. Neanche, a dirla tutta, la furbizia di usare il challenge per ripetere ( inutilmente) la seconda di battuta. Li abbiamo capito che eri al limite Roger, che anche tu sei un mortale. Lì ti abbiamo voluto ancora più bene.
Che fosse un giorno da segnare, come diceva il mitico Rino Tommasi nelle più belle telecronache di tennis di sempre, con il circolato rosso, era evidente da tre ore. Lorenzo Buccella, eccellente giornalista della tv svizzera e del Festival di Locarno, con nostalgia e poesia lo aveva detto alla fine del primo set. Lo aveva decretato come il segno, il graffio del campione. “Quanto sarebbe bello se si giocasse al meglio di un set. Questo”. Sì, lo abbiamo pensato tutti: con quel Rafa Nadal non c’era speranza di chiuderla in tre set e l’eroe tranquillo, l’elegante poeta del tennis non poteva durare. I suoi 35 anni, il calvario passato negli ultimi sei mesi, la maratona con Wawrinka in semifinale erano troppo anche per un dio del tennis. Il punto è che noi mortali non possiamo, non dobbiamo mettere in dubbio la grandezza delle nostre divinità. E uso il plurale perché anche l’angelo caduto Nadal ( Natale e Fede, non può essere un caso che nei loro cognomi vi siano queste parole), rivale del migliore e per questo a molti inviso e non di rado sospet- tato per le sue pessime frequentazioni mediche passate, proprio in questa sconfitta ha capito di poter sedere alla destra di Roger. Lo sappiamo, in due fanno 32 titoli dello slam, per anni Rafa è stato il numero uno, ma Roger è altro, lo capisci dal fatto che Rod Laver, sua maestà, abbraccia con affetto e trasporto lo spagnolo e quasi con deferenza lo svizzero, prima della premiazione di Melbourne. Rod. Laver.
Eppure, il povero iberico crocifisso sull’altare di un talento infinito, ci ha regalato una disfatta eroica, che ricorderemo più delle sue vittorie. Ettore Nadal e Achille Federer si sono resi l’onore delle armi come mai prima d’ora: gli infortuni e le fatiche del 2016 - “Rafa, cinque mesi fa quando ci siamo visti alla tua Academy non avremmo mai immaginato di ritrovarci qui, in finale” ha ammesso il Re con umiltà, davanti a tutti - hanno tolto loro il pudore di una rivalità totale, limpida, entusiasmante. Si sono corteggiati fin dai quarti, mandandosi messaggi indiretti e poi in semifinale dove hanno tifato l’uno per l’altro. Volevano trovarsi, due vecchi amici che si stimano e si apprezzano, che hanno in qualche modo reso indimenticabile la carriera dell’altro. La grandezza di un campione, si sa, la si misura con quella dei suoi avversari. Ma vale anche il contrario. Borg- McEnroe, McEnroe- Connors, Graf- Navratilova, Lendl- Edberg- Becker, Sampras- Agassi, Nadal- Federer ce li ricorderemo finché vivremo, come un mantra. Uno non ( r) esiste senza l’altro. Resiste, sì. Perché quei due, domenica mattina ci hanno detto che no, Djokovic e Murray non sono re, ma solo reggenti. Che l’età darà punti e montepremi al serbo e allo scozzese, ma anche al nono e al diciassettesimo posto della graduatoria ATP gli dei sono loro. Roger e Rafa. Cinque set. Pieni di tecnica, errori, momenti drammatici, break, controbreak e emozioni laceranti. Ventisei palleggi da manuale del tennis, in un solo scambio, ai vantaggi, li hanno fatti dopo tre ore di gioco. Per dire. I punti più belli li hanno messi dentro, l’uno e l’altro, sempre sull’orlo dell’abisso.
Nadal, 30 anni abbondanti, sembrava umano solo sul servizio dell’avversario. Venti volte lo ha solo visto passare, altrettante non l’ha domato, altrettante ancora l’ha subito. Poi, arrivava ovunque, pennellava colpi che fisicamente era difficile pure immaginare, non ha mollato mai, da primo e unico giocatore moderno e totale. Roger, invece, l’ultimo dei romantici, con quel fisico da impiegato del catasto in forma, ha giocato come i grandi campioni del calcio a fine carriera. Fidandosi della sua classe, correndo il meno possibile, tenendosi alla fine. Ma il punto è che non è Totti, non c’è nessuno che al posto suo stia in campo per tre quarti della partita. E allora ha vinto d’autorità il primo e il terzo set, ha perso lasciandoli andare, se non con un paio di game dimostrativi del fatto che era in partita e servizi tenuti con massimo due scambi, il secondo e il quarto. Doveva rimanere sotto le quattro ore, era meglio non perdersi in inutili lungaggini, “Nadal è troppo forte per recuperi miracolosi” si sarà detto. E al quinto, il campione, il vecchio leone, le ha tirate fuori tutte per vincere. Anche sullo 0- 2 iniziale, su quelle palle break conquistate e perse. Tante, troppe. Eravamo tutti rassegnati: vincerà Nadal, celebreremo Roger.
Ma lui era là. Troppo tranquillo, con le ginocchia che quasi tremavano, sornione. In mezzo al set ce l’ha fatta. Con colpi impossibili, forse vendicandosi di quella prima sconfitta che il rivale gli regalò quando ancora era minorenne. In quel quinto set ci sono due fratelli contro, perfettamente complementari, due giganti. E Roger lo ha battuto così Rafa, perché lo conosce. Lo ha acutamente fatto notare Mats Wilander. “E’ come se in questi sei mesi Federer avesse saputo che sarebbe finita così. Ha giocato più rovesci che mai, cosa che se avesse girato per tornei non avrebbe potuto fare. Ha migliorato ancora il servizio. Capito? Ha sfruttato l’infortunio per rafforzarsi nei suoi punti deboli”. Sì, il migliore dei migliori si allena sui suoi punti deboli. E’ come se Maradona avesse usato lo stop a Barcellona per imparare a calciare di destro come col sinistro. Nadal sui rovesci perfetti di Roger era frustrato e ammirato: l’aveva capito bene che quel colpo, l’amico e rivale, se l’era tenuto per la finale, per lui, per stupirlo e spiazzarlo. Tanto che nei primi quattro set, lo svizzero, aveva incredibilmente sbagliato dritti e volée non da lui. Ma ha vinto, perché ha imitato la sua nemesi. Non ci sono stati black- out caratteriali in questa finale, per il campionissimo, quei down che quasi mai gli fanno collezionare tripli o doppi 6- 0 anche contro gli avversari più scarsi. Lui dipinge tennis, non può preoccuparsi pure del risultato. E’ stato aggressivo in tutta la partita, ha vinto di carattere e di rovescio, come pensava di fare lo spagnolo. Ci avete fatto impazzire ragazzi, così come avete mandato fuori giri il pubblico della Rod Laver Arena. Tifavano per entrambi, esultavano per i punti di entrambi. Sì, per te Roger hanno anche improvvisato due standing ovation, ci avete mandato tutti in trance. E alla fine, l’epica di uno scontro quasi cinematografico diventa film d’amore e forse ( melodramma). “Spero di rivedervi il prossimo anno”. Poi una pausa. “Se non sarà così, è stato bellissimo”. Il terrore di un ritiro, magari a Flushing Meadows, pervade tutti. E poi sorride, sereno, perché la sua vittoria più bella è arrivata, e lo è, un’impresa, grazie a chi ha battuto dopo una partita capolavoro di entrambi. Sa di essere tornato di nuovo in cima, di aver ricordato a tutti che il tennis è lui. Anzi, loro. “Avrei perso volentieri da te, Rafa, oggi. Il tennis è uno sport crudele, avrei voluto il pareggio”. Perché un maestro, un artista, sa scriversi anche bene le battute clou dei suoi film più belli. Circoletto rosso, amici.