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«Percorrendo la storia del Pci, ritroviamo la storia di un secolo con le sue tragedie e le sue conquiste. E ritroviamo la storia italiana del Novecento con i suoi successi e le sue conquiste».
A cento anni dalla nascita del Partito comunista italiano, Piero Fassino, protagonista del percorso politico del Pci prima, del Pds e del Pd poi, ricostruisce nel suo nuovo saggio, Dalla rivoluzione alla democrazia. Il cammino del Partito comunista italiano 1921- 1991( Donzelli editore), le tappe più significative di una storia lunga e preziosa, fedele ai propri valori fondativi ma parimenti aperta ai cambiamenti determinati dall'evoluzione del contesto storico e sociale.
Si potrebbe affermare che in Italia, dopo la fine della Prima guerra mondiale, sussistessero le condizioni per un vero e proprio salto rivoluzionario?
Sull’onda della Rivoluzione di Ottobre, in tutta Europa, all’indomani della Prima guerra mondiale, i movimenti socialisti assunsero come parola d’ordine “Fare come in Russia”. Tentativi rivoluzionari - repressi e sconfitti - si ebbero in Germania, Austria, Ungheria. In Italia si sviluppò un forte ciclo di lotte - il cosiddetto biennio rosso - e nelle elezioni del 1919 il PSI si affermò come il primo partito con il 32 % dei voti. Tutto questo portò i dirigenti socialisti a pensare che fossero mature le condizioni per un salto rivoluzionario. Ma, in realtà, il PSI evocava la rivoluzione senza fare nulla per prepararla. Proprio per questo si giunse alla scissione di Livorno e alla nascita del PCI, un partito che nasce per fare la rivoluzione. Rivoluzione che tuttavia non farà, in quanto mancavano le condizioni, mentre invece il fascismo era alle porte: diciotto mesi dopo Livorno, Mussolini organizzò la marcia su Roma e prese il potere.
Nel 1924, sulle colonne di «Ordine Nuovo», Gramsci ammise: «fummo senza volerlo un aspetto della dissoluzione generale» : quali potrebbero essere le responsabilità e le contraddizioni delle sinistre italiane – principalmente Pcd'I e Psi – all'indomani dell'avvento del fascismo?
Non si comprese che non c'era in realtà alcuna condizione rivoluzionaria e si sottovalutò il movimento fascista, di cui si denunciava il carattere violento ma senza considerare come intorno a Mussolini si stesse organizzando un blocco reazionario in grado di raccogliere ampio consenso nel Paese.
Lei scrive: «Quel che ogni ricostruzione storica riconosce è il ruolo centrale dei comunisti». Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono l'azione e l'organizzazione comunista durante la Resistenza e nel futuro percorso costituzionale?
Il Partito Comunista fu l’unico dei partiti antifascisti che durante il ventennio scelse di mantenere un’organizzazione clandestina nel Paese. Quando nel’ 45 si fece il bi- lancio delle misure repressive imposte dalla dittatura si vide che l’ 80% dei condannati al carcere e al confino erano comunisti. Così nella Resistenza le Brigare Garibaldi, promosse dai comunisti, costituirono oltre il 50% delle formazioni partigiane. Ancora: i comunisti furono determinanti nel referendum per la Repubblica e contribuirono a scrivere la Costituzione, promulgata con la firma di Umberto Terraccini accanto a quelle di De Nicola e De Gasperi. E in ogni passaggio della vita della Repubblica i comunisti sono stati protagonisti, come quando di fronte allo stragismo nero e al terrorismo rosso il PCI si schierò, senza se e senza ma, a difesa dello Stato e della democrazia.
La “svolta di Salerno” e il “partito nuovo” di Togliatti, il “compromesso storico” promosso da Enrico Berlinguer nel ' 76, il discorso della Bolognina di Achille Occhetto: in che modo momenti di significativo e travagliato cambio di passo hanno ridefinito l'identità comunista e quale lezione se ne può trarre ancora oggi?
I passaggi che ha richiamato sono i momenti salienti di un cammino che ha visto il PCI assumere la democrazia come il valore fondativo della sua identità fino alla dichiarazione di Berlinguer sulla democrazia come valore imprescindibile per qualsiasi azione di trasformazione sociale. Un cammino - per essere oggettivi - che ha conosciuto anche momenti contraddittori, come nel ‘ 56 la mancata condanna dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Ma proprio quell’errore accelerò poi la decisione del PCI di intraprendere una strada del tutto diversa e autonoma da Mosca.
L'attuale governo di Mario Draghi si connota, decisamente, come europeista e atlantista. Cosa significò per il Pci – e, più in generale, per le sinistre – la nascita della NATO nel 1949?
La NATO nacque nel pieno della guerra fredda, che contrappose l’Occidente al campo sovietico. E questo spiega perché il PCI la avversò come espressione di invadenza americana in Europa. Un giudizio che, con il tramonto della guerra fredda e l’affermarsi della coesistenza pacifica tra USA e URSS, si attenuò gradualmente fino alla decisione di Berlinguer negli anni ‘ 70 di superare ogni pregiudizio e di riconoscere la NATO come un’alleanza a difesa della democrazia.
Lei è stato dirigente del Pci e fra i fondatori del Pd, partito attualmente parte della maggioranza del governo Draghi. Pur in presenza di un contesto nazionale e internazionale profondamente mutato, quali valori, retaggio del percorso e della cultura comunista, risultano ancora oggi validi e irrinunciabili?
I valori che il PCI ha rappresentato per decenni libertà, giustizia sociale, uguaglianza, solidarietà, dignità umana, parità di genere - mantengono intatta la loro attualità. Cambiano le forme con cui li si rappresenta in rapporto all'evoluzione della società, ma i valori attraversano il tempo. Così come il valore della democrazia, che non va considerata acquisita una volta per sempre, come è evidente se si pensa a come oggi sia insidiata non solo dalle dittature, ma anche dalle “democrazie illiberali” di cui si ha manifestazione in molte nazioni, anche europee. E ancora: il modo di costruire il rapporto tra cittadini e politica che ebbe nel PCI - come anche nella DC - la forma del partito di massa, fondato sulla partecipazione attiva dei cittadini e su un forte radicamento sociale e territoriale. Infine, la riscoperta del “primato dell’interesse generale”, valore che ispirava l’azione di ogni partito che sapeva di dover sempre trovare un punto di compatibilità tra gli interessi di cui era portatore e l’interesse generale del Paese. È il valore a cui, dopo anni di offuscamento, si è appellato nelle scorse settimane il Presidente Mattarella nel richiedere ai partiti un atto di responsabilità a sostegno del governo Draghi.