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C’erano una volta una principessa che si travestiva da cavaliere per salvare il suo regno, un principe coraggioso, una Strega Nera e una pietra parlante. Poi c’era anche un’oca che si trasformava in Strega Bianca, una maledizione da rompere e un cattivo da redimere. A un certo punto arrivavano anche i cavalieri dell’Apocalisse.
Per la generazione che era bambina negli anni Novanta, Natale è ancora e sarà sempre sinonimo di Fantaghirò: un prodotto che all’epoca si chiamava ancora miniserie televisiva e che è stato l’azzardo meglio riuscito della tv commerciale italiana, il solo vero fenomeno cult mai prodotto dalla nostra tv. Una serie che ancora oggi si riconosce da un paio di note flautate e una voce fuori campo che scandisce: «per la regia di Lamberto Bava».
A dimostrarlo, ventisei anni dopo il primo episodio ( ne sono stati realizzati cinque, ma i puristi considerano il quinto un apocrifo poco gradito perchè orfano di quasi tutto il cast principale) è il fatto che Netflix, l’attuale avanguardia in fatto di serie tv, abbia comprato l’intero catalogo di Fantaghirò e lo abbia lanciato con gran tam tam pubblicitario come l’evento di questo Natale. Rincartato in una nuova veste più affine al pubblico del 2017 e diviso in cinque stagioni ( che dà una imbiancata di modernità) da due episodi l’una, Fantaghirò è tornato in una nuova forma ma con tutto il suo fascino vintage. Neanche a dirlo, orde di fan nostalgici hanno inondato i social di messaggi di giubilo e la notizia è rimbalzata talmente sui social da far accorgere del fenomeno anche i nati nel 2000 che credevano che principesse e streghe fossero cose da bambini.
A seguire Netflix, anche il diretto concorrente Amazon ha rispolverato la serie e solo dopo, fanalino di coda, è arrivata anche Mediaset premium, tanto spregiudicata il secolo scorso quando ha prodotto la serie, quanto incapace di cavalcarne oggi il successo quasi infinito. Perchè il fenomeno Fantaghirò, contro tutto e tutti, non si è mai esaurito e anzi ogni volta che il Biscione lo ha riproposto in televisione è stato premiato dall’auditel.
Eppure non c’è da stupirsi. Prodotta in anni in cui la serialità e il binge watching ancora non esistevano, in cui una serie prodotta all’estero si poteva vedere in Italia solo se qualche rete comprava i diritti e la mandava in onda doppiata, Fantaghirò è a tutt’oggi il maggior successo televisivo italiano in Europa: acquistato, tradotto ed esportato in paesi di lingua tedesca, spagnola, inglese e francese.
La ragione del successo sta sua totale anomalia: tanto per cominciare, il genere. In un Paese che ancora oggi produce prevalentemente fiction su papi, santi, poliziotti e dame velate, Fantaghirò è una favola fantasy con venature horror realizzata vent’anni prima che il genere ritornasse di moda. Ambientata nei boschi della Repubblica Ceca ( dove girare era molto più economico rispetto ai boschi abruzzesi) durante un medioevo arturiano fatto di castelli, caverne e bestie magiche, a guardare bene - con la benevolenza necessaria viste la diversità di mezzi di produzione e l’anagrafe - Fantaghirò ha creato un’immaginario non troppo diverso da quello che ha fatto la fortuna di Game of Thrones.
L’arco dei cinque film riproduce e snocciola tutti gli archetipi di delle fiabe, con una spruzzata di clichè da romanzo d’appendice. L’elemento determinante a trasformare una storia dal sapore di deja vu in un capolavoro cult, però, è uno solo: la sua protagonista. Impersonata da una giovanissima Alessandra Martines, Fantaghirò è una principessa guerriera così buona da far venire il voltastomaco, così bella da fare invidia anche con il taglio di capelli a scodella ( anche se provvidenzialmente le lunghe ciocche ricrescono in tempo per il matrimonio in abito bianco), così sfacciatamente fortunata da sposare il principe azzurro Romualdo con gli occhi vedi di Kim Rossi Stuart. Attenzione però, sposarlo solo dopo averlo sconfitto platealmente in battaglia davanti a tutto il suo esercito. E, anche dopo sposi, è lei a salvare marito e regno da maledizioni, streghe e maghi, trovando anche il tempo di redimere il cattivo di turno, facendolo innamorare di lei per poi dirgli di restare amici. Una protagonista che oggi può apparire scontata ma che apriva un mondo alle bambine degli anni Novanta, alle quali la tv italiana non aveva mai offerto modelli alternativi di emancipazione femminile.
A determinare il successo di ogni serie, però, è l’attenzione per i dettagli, e la produzione di Fantaghirò ha messo insieme il meglio in circolazione in quegli anni: oltre al regista cult Lamberto Bava, sul set hanno lavorato Sergio Stivaletti ( lo scenografo che ha dato vita agli incubi di Dario Argento) che ha creato lupi mannari, pietre animate che tornano indietro come boomerang e fanno la morale come il grillo parlante di Pinocchio ed eserciti in terracotta; Amedeo Minghi alle musiche, che ha donato a Fantaghirò una colonna sonora barocca cantata da Rossana Casale dal titolo “Il mio nemico amatissimo”; e Gianni Romoli alla sceneggiatura. Lo stesso Romoli che quindici anni dopo Fantaghirò sceneggerà Le fate ignoranti ( e quasi tutti i film successivi) di Ferzan Ozpetek e metterà in bocca al protagonista maschile del film una dichiarazione d’amore ripresa parola per parola da quella del mago oscuro Tarabas a Fantaghirò.
Infine, di Fantaghirò rimane indimenticabile un cast di comprimari talmente surreale da far impazzire qualsiasi cinefilo. La biondissima e algida Brigitte Nielsen, musa delle copertine patinate anni Ottanta, diventa per Bava la perfida e nerissima Strega Nera, inguainata in abiti succinti e trucco dark: una cattiva talmente ben riuscita da rubare a Fantaghirò non solo la scena, ma anche quasi il cuore di Romualdo- Kim Rossi Stuart, l’unico principe disposto a farsi salvare dalla principessa in quattro episodi su cinque. Proprio Kim Rossi Stuart, oggi attore impegnato, voleva abbandonare la produzione di Fantaghrò già dopo i primi due film ma uccidere il suo personaggio era impensabile, così il colpo di genio: trasformarlo in pietra nel terzo film e poi in nano deforme nel quarto, per poi usare sapientemente le scene scartate dei primi due film per ottenere l’immancabile lieto fine del ricongiungimento con l’amata. Poi la Strega Bianca, impersonata da un’androgina Angela Molina ( che all’epoca aveva già recitato con Luis Bunel, Pedro Almodovar e i fratelli Taviani), che diventa la mentore di Fantaghirò e a cui si deve la battuta più citabile di tutta la serie: «Cancella dal tuo vocabolario la parola impossibile». Infine Xellesia, la madre di Tarabas ( bellissimo, maledettissimo e innamoratissimo di Fanta- ghirò), interpretata da Ursula Andress alias Honey Ryder, la prima e più ricordata Bond Girl della storia, che in Licenza di uccidere esce dal mare con il costume da bagno a fascia. Un cast internazionale con ogni attore che, nella miglior tradizione dei b- movies italiani, recitava nella propria lingua per poi venire doppiato ( nel primo Fantaghirò se ne occupò Fede Arnaud, forse la più grande direttrice del doppiaggio italiana).
Fantaghirò è certamente una fiaba per famiglie popolata da mostri, cavalieri neri e lupi mannari a incarnare le paure dei bambini, ma anche una storia d’amore epica, condita con gli ingredienti tipici di ogni classico che si rispetti: amore e morte. Del resto, come tutti i cult, Fantaghirò ha più livelli di lettura che si scoprono a mano a mano che si cresce, rivedendo ogni episodio ad ogni maratona natalizia proposta da Canale 5 e, oggi, anche da Netflix e Amazon. Una favola un po’ spaventosa e un po’ romantica che ha fatto sognare una generazione di bambine che sono cresciute lanciando sassi, sperando tornassero indietro e che oggi strizza l’occhio a un pubblico diverso ma con uno stesso minimo comune denominatore: un debole per il fascino del vintage. E poco importa se il finale è scontato, il bene trionferà sul male e vivranno tutti felici e contenti. Ogni tanto tornare al “C’era una volta” fa bene al cuore.