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Ogni tanto, in questa estate davvero scomposta, oltre che torrida, si leggono segnali e messaggi troppo allusivi contro Sergio Mattarella perché si possa continuare a fare finta di nulla. L’allusione principale è ad una specie di conflitto d’interesse al Quirinale di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate in caso di crisi.
Più che dalla preoccupazione di danneggiare immagine e conti dello Stato, prima di metterli in sicurezza con la nuova legge di cosiddetta stabilità, e relativo bilancio, il presidente della Repubblica sarebbe condizionato dalla voglia di una rielezione, sovente viene attribuita, a torto o a ragione, all’inquilino di turno del Quirinale quando si avvicina la scadenza del suo mandato. Che in questo caso tuttavia non è proprio imminente, mancando tre anni.
Ma - si sa anche questo - le corse al Colle più alto di Roma cominciano sempre con largo anticipo, almeno nella fantasia dei cronisti, retroscenisti e quant’altri. Che precedono la partenza dei corridori. Ciò accadeva già ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, con la complicità degli uomini soprattutto della Dc che si posizionavano anzitempo dove ritenevano di potersi trovare avvantaggiati al momento opportuno: per esempio, insediandosi al vertice di Palazzo Madama come nell’anticamera del capo dello Stato, poiché il presidente del Senato diventa supplente al Quirinale in caso di impedimento del titolare.
Ma l’espediente non funzionò nel 1971, quando Amintore Fanfani da presidente appunto del Senato si fece candidare dal suo partito per la successione al socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che un pensierino per la rielezione lo aveva fatto pure lui, fallendo come Fanfani nella scalata, sconfitto dagli avversari interni allo scudo crociato.
Costoro, vinta da “franchi tiratori” la battaglia contro “il nano maledetto, non sarai mai eletto”, come uno si spinse a scrivere sulla scheda che Sandro Pertini da presidente della Camera evitò di leggere scrutinandola, non ebbero poi la forza numerica di far passare nei gruppi parlamentari la candidatura di Aldo Moro e ripiegarono alla fine, quasi sotto le luci dell’albero di Natale, sul collega di partito Giovanni Leone. Che, defilato dal gioco delle correnti, era stato più volte presidente della Camera e poi anche presidente, sia pure balneare, del Consiglio dei Ministri.
Mattarella, a sentire e a leggere chi certamente non ha molte simpatie per lui, vorrebbe salvare ad ogni costo le Camere in caso di crisi perché la sovra- rappresentazione dei grillini, dopo il tonfo elettorale del 26 maggio scorso, gli consentirebbe appunto la rielezione con l’aiuto del Pd. Le cui componenti smaniose di aprire al Movimento delle 5 Stelle per sostituire i leghisti godrebbero non a caso del pur doverosamente silenzioso sostegno del presidente della Repubblica nel braccio quasi quotidiano di ferro con Salvini.
Peccato, almeno per chi la coltiva, che questa storia stia politicamente poco in piedi, ammesso e non concesso che davvero Mattarella, o anche Mattarella, sia stato preso dalla voglia di una conferma. Né fra i grillini né fra i piddini, che fra di loro fanno per ora più rima che altro, la strada di un’intesa di governo, in caso di crisi, per scongiurare le elezioni anticipate e salvare la legislatura fortunosamente uscita dalle urne del 4 marzo del 2018, si vedono francamente le condizioni unitarie necessarie non dico a un matrimonio, ma almeno ad una convivenza.
Ma poi chi l’ha detto che i grillini abbiano la voglia e la capacità di confermare Mattarella al Quirinale, peraltro proprio nell’ultimo anno della legislatura, nel 2022, prenotando una sconfitta elettorale non meno vistosa e rovinosa di quella del 26 maggio scorso? Dei grillini, nei riguardi di Mattarella, personalmente ricordo solo il tentativo compiuto, e abortito, di promuoverne il processo davanti alla Corte Costituzionale l’anno scorso per alto tradimento, avendo osato rifiutare il ruolo di passacarte di fronte alla lista dei ministri portatagli da Giuseppe Conte. Ricordo inoltre che a quella clamorosa iniziativa annunciata alla Robespierre dal candidato alla vice presidenza del Consiglio e capo dei pentastellati Luigi Di Maio il primo ad opporsi, procurandosi l’accusa di vigliaccheria politica, o qualcosa del genere, fu il “capitano” leghista Matteo Salvini. Che pure, se avesse voluto, avrebbe potuto contestare al presidente della Repubblica di non avere conferito l’incarico di formare il governo a lui, che sorpassando nelle urne Silvio Berlusconi aveva assunto la leadership di un centrodestra uscito vincente dalle elezioni, col 5 per cento dei voti in più dei solitari grillini.
Va bene che le cose e anche le idee, gli umori, i sentimenti e i risentimenti cambiano, non essendo notoriamente, e qualche volta per fortuna, dei paracarri.
Ma sarebbe pur sempre consigliabile un po’ di memoria e di prudenza nell’approccio a certi problemi, e a certe scadenze che in passato sono costate la faccia a un bel po’ di partiti e di leader, veri o presunti che fossero.