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Qualche giorno sul sito della prestigiosa rivista The Lancet è apparso un articolo dal titolo “Multidisciplinary research priorities for the Covid- 19 pandemic: a call for action for mental health science”, la pandemia del Covid- 19 sta avendo un effetto profondo su tutti gli aspetti della società, compresa la salute mentale e fisica. Lo studio si è posto l'obiettivo di esplorare gli effetti psicologici, sociali e neuroscientifici del Covid- 19 e di definire le priorità e le strategie per fronteggiarli. Noi ne discutiamo con il professor Fabrizio Starace, presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica ( Siep) e componente della task force guidata da Vittorio Colao.
Professore sono diversi gli approcci che vanno messi in campo per fronteggiare questa emergenza?
Sarebbe errato pensare a questa emergenza unicamente dal punto di vista sanitario. L'urgenza di passare alla Fase 2 conferma che si tratta anche di una emergenza economica e al tempo stesso una emergenza psicosociale. Sarebbe sbagliato non considerare questi tre aspetti: solo se considerati insieme potremmo avere tutti gli elementi per adottare decisioni efficaci per farci uscire da questa crisi.
Quali sono i principali effetti che nell'immediato si possono osservare nella popolazione costretta all'isolamento?
Lo stress, i disturbi di ansia e i sintomi correlati come l'insonnia, l'irritabilità, irrequietezza. A ciò si aggiunge il senso di costrizione, di intrappolamento che le persone avvertono sempre come più pesanti.
Ci sono differenze tra i diversi Paesi nel manifestare i disturbi?
La risposta ad uno stress è piuttosto simile a prescindere dalla latitudine ma sicuramente ci sono dei fattori che la possono accentuare o mitigare. Per esempio l'essere abituati ad avere un grande livello di fiducia nei confronti delle autorità pubbliche e delle scelte da loro adottate agevola il difficile processo di modifica della nostra routine e comporta una adesione più convinta alle indicazioni, per quanto restrittive. In caso contrario, ossia in quelle situazioni caratterizzate da minore coesione sociale e da maggiore spazio per i comportamenti individuali, ciò non facilita l'adattamento.
Però forse noi affrontiamo la situazione diversamente, ad esempio, rispetto agli scandinavi.
Il contesto italiano ha una struttura sociale fondata sulla famiglia tradizionale anche se in evoluzione, mentre nei Paesi nel nord d'Europa una parte rilevante della popolazione vive in maniera autonoma. Vivere per conto proprio certamente ha facilitato l'adattamento ad una situazione di isolamento. Le persone che vivono da sole da un certo punto di vista sono abituate. Dall'altro lato si sono create delle difficoltà specie se a vivere da soli sono le persone anziane o quelle che non hanno una piena autosufficienza: in questo caso occorre il sostegno dei sistemi di welfare.
A ciò si aggiungono delle disparità oggettive: diverso è vivere l'isolamento in piccole case. Ma anche culturali: chi ha più interessi sa far passare il tempo.
Questo che lei sta sottolineando è un altro elemento che mette in evidenza quanto le disuguaglianze di reddito e quelle culturali possano incidere sulle condizioni di benessere o malessere psichico. Chi oggi si trova in una famiglia numerosa in un appartamento di pochi metri quadri si trova in difficoltà molto più grandi rispetto a chi ha a disposizione spazi più ampi.
Stiamo assistendo ad un aumento della violenza domestica.
Ciò è sicuramente legato a questo lungo periodo di convivenza coatta che fa emergere le contraddizioni all'interno delle famiglie, come rapporti che vanno avanti per inerzia. Poi quando ci si confronta con un evento grande come questo i problemi vengono a galla. C'è però anche l'aspetto positivo: ci sono anche situazioni nelle quali questa coabitazione forzata ha fatto riscoprire ad alcuni i rapporti con i figli o con i partner.
Cosa ne pensa dell'App Immuni?
Sull'app siamo in attesa di saperne di più: se ci indica che siamo stati in contatto ravvicinato con una persona che potenzialmente può averci contagiato ciò significa che dovremmo attivarci, informare il nostro medico e mettere in atto tutte quelle azioni necessarie per determinare se siamo infetti. Tutte le tecnologie sono utili ma è la presenza umana che deve gestire, operare, decidere. Questo fa la differenza. In tal senso sono rimasto favorevolmente colpito dall'importanza che il presidente Conte ha giustamente attribuito al buon funzionamento dei sistemi sanitari territoriali.
In questa emergenza molto spesso è prevalsa l'emotività rispetto alla razionalità.
Tutto ciò è normale. Ci sono persone che hanno inteso la distanza di sicurezza in 10 metri, altri che vanno in ansia al primo colpo di tosse. In questi casi si accentuano i tratti ipocondriaci, per cui qualsiasi starnuto viene visto come un primo sintomo del Covid- 19. Queste risposte sono facilitate dalla natura invisibile del nemico che abbiamo di fronte. All'inizio però abbiamo anche assistito ad un atteggiamento di negazione, per cui si è continuato a fare la propria vita e questa è stata una delle cause per cui non si è riusciti ad arginare in tempo la diffusione del virus.
Una fetta di popolazione particolarmente colpita dalla paura e dall'ansia è quella dei detenuti.
L'ansia che può provare una persona detenuta dipende da come intendiamo la funzione delle carceri: luoghi di espiazione della pena o anche di processi di recupero e di riabilitazione. Se si intende il carcere come il luogo dove la persona deve con dolore pagare per i suoi reati allora è chiaro che c'è molta superficialità nel considerare l'esposizione dei reclusi al contagio. Al contrario, se lo si intende anche come luogo dove acquisire o riacquisire quegli elementi di base su cui si fonda la nostra convivenza civile allora è chiaro che una attenzione alle misure di prevenzione dovrebbe essere un interesse primario di un istituto che è volto a riabilitare e a restituire al corpo sociale le persone che vi si erano allontanate.
Si ipotizza che il virus possa produrre conseguenze anche a livello cerebrale e sulla salute mentale. Cosa si sa di specifico al momento?
Al momento non abbiamo delle evidenze certe salvo che vi sono delle localizzazioni cerebrali che sono state evidenziate dagli esami autoptici. Questi potrebbero essere correlati anche con danni di tipo cognitivo. La tumultuosità del quadro clinico acuto non lascia spazio per approfondire il piano neuro- psicologico. È un tema da approfondire in futuro verificando se nelle persone che hanno avuto l'infezione e l'hanno superata vi fossero conseguenze sul piano neurologico e/ o cognitivo.
Stiamo scoperchiando forse troppo tardi il vaso di pandora sulle residenze per anziani.
Credo che dovremmo chiedere ai destinatari di questo servizio se ne sono soddisfatti o se sceglierebbero altre forme di assistenza. Conosco moltissime persone anziane che preferirebbero vivere meno a lungo ma stando nella propria casa tra i propri affetti. Spesso la collocazione in queste strutture non è caratteristica soltanto dell'età anziana ma di quella vissuta in solitudine. Questo è il vero problema. Dobbiamo analizzarlo e provare a dare una risposta differente: ci sono esperienze molto belle ma limitate di adozione etero- familiare di un anziano o di convivenza tra persone anziane e studenti fuorisede, o anche persone extra- comunitarie in percorsi di inclusione sociale e lavorativa. In questi casi, sempre condotti con la regia del servizio pubblico, si creano legami solidali inter- generazionali e si risponde al bisogno di presenza e socialità di una persona anziana rimasta sola, senza sradicarla dal suo mondo.
Fabrizio Starace