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Fabrizio Gifuni è in scena al Teatro Vascello di Roma con la rassegna L’autore e il suo doppio. Qui l’attore, in quattro diversi appuntamenti, dà voce allo Straniero di Camus, a Ragazzi di vita di Pasolini, a Il dio di Roserio di Testori e rende omaggio a Cortázar e Bolaño con Un certo Julio. Gifuni è un interprete delle grandi profondità e dà prova della sua capacità di entrare nel corpo poetico degli autori, accompagnando lo spettatore in un viaggio di grande nutrimento spirituale.
Quale strada ha trovato per passare “dal corpo dello scrittore al corpo di scena”?
Non c’è mai una separazione tra corpo e voce, anzi la voce è la parte più segreta del corpo, nasce dal respiro. La rassegna che sto presentando s’intitola L’autore e il suo doppio, perché le parole degli scrittori non si sono depositate magicamente su una pagina scritta, ma provengono da corpi: quello di Camus, di Pasolini e così via. Quando riportiamo queste parole “orizzontali” a un corpo di scena, “suonandole” ad alta voce, compiamo un gesto naturale.
Come ha trovato la voce del protagonista dello Straniero Meursault, che sembra così distante dalla vita e dalla morte e finisce dentro un processo capitale quasi distrattamente?
Non ho pensato, come a volte mi accade, a un’ispirazione esterna. Io sono un grande appassionato di voci, fin da bambino sono stato voracemente curioso delle voci, di quel che esse raccontano di una persona. In questo caso, però, ho messo il mio corpo in una condizione di maggiore libertà e ho aspettato che la voce nascesse dalla suggestione del testo. Quella che è arrivata non so dire se sia giusta o sbagliata, se sia la voce di Meursault, quella a cui Camus pensava, quando creava questo impiegato di Algeri, che attraversa la sua vita con apparente distacco e indifferenza. So però che quella voce è nata in questo processo sincero, puro.
Nella rassegna porta in scena anche Ragazzi di vita di Pasolini. Tra lei e questo autore c’è una lunga storia…
Ragazzi di vita nasce da una suggestione ricevuta durante la lettura integrale che ho fatto del romanzo per Emons audiolibri. Come nel Dio di Roserio e nei racconti di Cortázar e Bolaño, c’è un passaggio continuo dalla terza persona, la voce del narratore, ai personaggi. E c’è poi questa coralità di voci che parlano una lingua che non esiste più, il romanesco delle borgate del secondo dopoguerra, fino agli anni Cinquanta. Questo lavoro eredita anche spunti da un mio storico spettacolo su altri testi di Pasolini, Na specie di cadavere lunghissimo con la regia di Giuseppe Bertolucci.
Il dio di Roserio di Giovanni Testori, romanzo anch’esso ambientato nel secondo dopoguerra. Cosa la affascina di quel periodo italiano?
Tante cose. Nulla del presente è comprensibile se non anche alla luce di quello che siamo stati. Il dio di Roserio offre un’opportunità quasi miracolosa. Testori ha una scrittura totalmente carnale, il suo teatro è fondato su questa riscoperta in scena di un rito primitivo, un rito anche sacrificale, perché è l’attore che offre il suo corpo per raccontare un frammento della confusione umana. In questo romanzo c’è un’irresistibile corsa in bicicletta: due ciclisti, Pessina, detto il dio di Roserio – un astro nascente, il campione – e il Consonni, suo gregario. Il dio di Roserio si macchia di una terribile scorrettezza: fa uscire fuori strada il suo gregario, causandone la caduta e la conseguente perdita di coscienza. Il primo capitolo del Dio di Roserio viene raccontato dalla voce istupidita del gregario, che ripercorre nella sua testa la corsa e quello che è accaduto. Il libro è un formidabile apologo di un’innocenza perduta e di quanto stava succedendo anche al nostro Paese: penso a quei connotati di piccola furbizia, di piccolo arrivismo, del raggiungere il successo a ogni costo, anche a quello di altre vite umane.
E arriviamo anche a Julio Cortázar, l’autore del Gioco del mondo. Di questo scrittore argentino e del cileno Roberto Bolaño leggerà i racconti. Perché questa scelta?
Cortázar mi ha sempre affascinato per l’impareggiabile capacità di tenere insieme i vivi e i morti, il quotidiano nelle sue pieghe e nei suoi piccoli andamenti, per spalancare a ogni angolo voragini improvvise in cui i personaggi sprofondano, come entrando in una terza dimensione. Sono racconti molto divertenti, ironici, che lasciano però un senso di grande inquietudine. Bolaño riconosceva in Cortázar uno dei suoi maestri. Quindi ho deciso di costruire questo omaggio a Julio Cortázar, lavorando anche su tre racconti di Bolaño che vengono da Detective selvaggi. È l’ultimo appuntamento di questa mappa teatrale e letteraria, che mi piaceva avesse un finale esotico, un’uscita dalle latitudini dell’Europa. Qui il valore della traduzione è molto importante e Ilide Carmignani è una grandissima traduttrice.
Cinema e teatro, lei ha due amori, qual è il loro stato di salute oggi in Italia?
Credo ci sia una buona forma di vitalità che riguarda le persone: penso ai registri, produttori, attori, sceneggiatori. Manca però un senso di comunità, anche nell’approccio. Temo che sia molto difficile ribaltare un pensiero devastante: quello che lega l’arte al tempo libero. È come se esistesse un tempo delle cose serie, quello della produzione e del consumo, e poi il tempo libero. Se questa è l’idea, è ovvio che – in materia di investimenti dello Stato in cultura e di quanto la comunità senta queste forme d’arte come indispensabili alla crescita – siamo sempre in difetto.