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«Lo hanno abbandonato e oltraggiato». Le parole di Paolo Andrei, rettore dell’università di Parma, sembrano racchiudere tutto il senso del dramma vissuto da Loris Borghi, suo predecessore, morto suicida mercoledì sera a Baganzola, frazione del Comune di Parma. Prima di imbottirsi di psicofarmaci e tagliarsi le vene, Borghi ha inviato un sms all’amico di sempre, che ha tentato disperatamente di salvargli la vita. Si è precipitato nel suo appartamento, dove un messaggio d’addio indicava il luogo dove poco dopo lo avrebbe trovato ormai in fin di vita, sotto un cavalcavia dell’Alta velocità. Inutile la corsa in ospedale nel tentativo di salvarlo. Una vita dedicata al lavoro accademico e a quello medico la sua, travolta però dagli scandali giudiziari. Scandali che, forse, l’ex rettore non ha retto, al punto di optare per un gesto estremo. Borghi, 69 anni, si era laureato in Medicina e chirurgia nel 1974, iniziando la carriera accademica nel 2000, quando venne nominato professore ordinario. Tredici anni dopo arrivò la nomina a rettore dell’Università di Parma, carica ricoperta fino a maggio 2017, quando diede le dimissioni a seguito dell’avviso di garanzia per abuso d’ufficio ricevuto nell’indagine “Pasimafi”. L’inchiesta, che ha portato in carcere 19 persone su un totale di 80 indagati, riguardava il business della terapia del dolore nel centro diretto da Guido Fanelli, luminare del settore. Borghi, secondo l’accusa, avrebbe agevolato la vittoria nei concorsi interni di alcuni protetti di Fanelli. Una vicenda, ha spiegato al Dubbio il suo avvocato Paolo Veneziani, «nella quale non c’entrava nulla». «Appena dopo la chiusura delle indagini, quindi di recente – ha sottolineato –, avevamo depositato una memoria difensiva, chiarendo la correttezza dell’operato dell’ex rettore. Si tratta di una contestazione secondo me infondata e destinata a cadere. Il professor Borghi ha agito anche in quell’occasione nell’interesse dell’Ateneo, come già del resto aveva detto e scritto nel rassegnare le sue dimissioni: parole che credo sia utile rileggere oggi.
Per il momento posso solo aggiungere che sono tristissimo e che ricordo il professor Borghi come persona di grande valore e capacità, sia dal punto di vista professionale che umano». Nella sua lettera di dimissioni Borghi aveva rivendicato soprattutto la propria onestà.
«Avrei potuto addurre motivi di salute – aveva scritto – Ma non lo farò. Non lo farò perché nel tourbillon di infamia e violenza delle ultime settimane c’è bisogno di chiarezza e verità.
La vera motivazione è che sono scese ombre su chi rappresenta l’Università e l’Università non può attendere se e quando tali ombre si dilegueranno.
Sottolineo che non mi dimetto perché è accusato Loris Borghi, ma presento le dimissioni perché è accusato il rettore dell’Università di Parma». Un gesto compiuto nella speranza, aveva chiarito, di lavare «le maldicenze ed il fango che hanno colpito l’Ateneo di Parma, dall’esterno e talora anche dall’interno».
Borghi aveva garantito, nella sua lettera indirizzata al Senato accademico, di non aver avuto nulla a che fare con quanto emerso dall’inchiesta “Pasimafi”. «Nella mia vita – aveva chiarito – non ho mai rubato un euro, mi sono sempre comportato come un servitore dello Stato, ovunque sono arrivato ho cercato di migliorare le cose e di aiutare, in trasparenza e legittimità, le persone meritevoli, nella ferma convinzione che le persone sono il cardine e la vera forza di successo di una struttura pubblica o privata che sia. Non sta a me giudicare il bilancio tra le cose buone fatte e gli errori. Lascio da uomo semplice e libero, come sempre sono stato, senza rancori né dietrologie, e auguro buon lavoro e maggior fortuna a chi mi seguirà».
Ma non era la sola indagine a vederlo coinvolto: nel 2016, l’ex rettore era finito sul registro degli indagati con una nuova accusa di abuso d’ufficio per la nomina di Tiziana Meschi – secondo gli inquirenti sua convivente – a capo del reparto di Medicina interna e Lungodegenza critica, oltre che alla guida del Dipartimento geriatrico. «È un attacco politico – aveva protestato Borghi–. I miei rapporti con la professoressa Meschi sono di stima reciproca e di frequentazione professionale assidua. È stata una delle mie allieve e il direttore generale mi ha proposto di riorganizzare i dipartimenti e io ho suggerito di ridurli da 11 a 5. La cosa ha suscitato numerose proteste. Sono stato eletto rettore nel 2013 quando ero responsabile dell’unità di lungodegenza critica. Quando sono entrato in servizio, in novembre, ho ritenuto necessario lasciare la direzione della struttura. Meschi lavorava fin dall’inizio nella struttura. Aveva fatto un percorso adeguato e ho proposto il suo nome». Per questa vicenda la Procura, a gennaio, ha chiesto il rinvio a giudizio, archiviando invece le posizioni di Meschi e dell’ex direttore generale dell’ospedale Leonida Grisendi, entrambi sempre indagati per abuso d’ufficio. L’udienza preliminare era stata fissata per il 10 aprile, data alla quale però Borghi ha deciso di non arrivare mai. Forse proprio per colpa di quel fango dal quale aveva voluto salvare l’Università. «Tra le ragioni che hanno portato a questo gesto estremo – ha commentato il rettore Andrei – c’è stato sicuramente anche il senso di abbandono che lo ha pervaso a seguito dell’indifferenza dei molti che, dopo le sue dimissioni dalla carica di rettore, lo hanno dimenticato e, talvolta, oltraggiato. Tutto ciò deve farci riflettere, deve fare riflettere ciascuno di noi, perché interpella la nostra coscienza individuale e collettiva». Parole alle quali si aggiungono quelle della nipote Chiara Borghi, assessore al Turismo di Castelnovo, Comune che aveva conferito all’ex rettore la cittadinanza onoraria. «Solo un uomo buono e onesto non poteva trovare spazio in un mondo così squallido e crudele – ha scritto sulla sua bacheca Facebook. E proprio la tua integrità ti ha portato a questo gesto di dolore, così estremo e tragico, folle. Perché a chi ti conosceva o a chi ha avuto a che fare con te, non c’era nulla da dimostrare. Tutti sappiamo che uomo sei, un uomo grande».