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"Si deve ritenere che non siano stati acquisiti elementi probatori idonei a sostenere la conclusione di un pactum sceleris in relazione all'operazione Fcp stretto da Scaroni e agevolato da Vella per conto di Eni col ministro Khelil e per tramite dell'intermediario Bedjaoui". Lo scrivono i giudici della seconda corte d'appello di Milano nelle motivazioni al verdetto con cui, il 15 gennaio scorso, hanno confermato l'assoluzione, tra gli altri, dell'ex ad di Eni, Paolo Scaroni, dell'ex manager della stessa societa', Antonio Vella, e della compagnia petrolifera nel processo con al centro il caso' Saipem-Algeria su una presunta tangente da 197 milioni di dollari. Soldi che, secondo l'impostazione dell'accusa, sarebbero serviti per far ottenere a Saipem (partecipata da Eni) appalti da 8 miliardi di euro. La presunta corruzione, inoltre, avrebbe riguardato irregolarita' nell'operazione del 2008 che porto' Eni a comprare la societa' canadese First Calgary Petroleums Ltd che aveva un giacimento di gas a Menzel in comproprieta' con l'azienda statale algerina Sonatrach. "Anche a prescindere dalla dirimente circostanza che non e' stato dimostrato il pagamento diretto o indiretto verso il pubblico ufficiale straniero - si legge nel documento - e' mancata altresi' la prova dell'esistenza di un accordo corruttivo, separato o unitario, ne' e' stato comprovato il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio collegato a una promessa o dazione di denaro". Per quel che concerne la richiesta della Procura Generale di condannare Eni per la responsabilita' amministrativa in relazione alla legge 231 del 2001, i giudici scrivono che l'assoluta genericita' dell'imputazione si e' riflessa nell'inesistenza dei motivi di impugnazione". I giudici dell'appello avevano ribaltato in parte la sentenza di primo grado con cui, nel settembre 2019, il tribunale aveva condannato Saipem e i suoi manager, mentre aveva gia' assolto Varone, Vella ed Eni.