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È ufficiale: il nuovo nemico dell’America è la Cina. Dopo averla attaccata ripetutamente in campagna elettorale, imputandole la colpa di strappare il lavoro agli americani, dal 20 gennaio Trump passerà all’azione. L’idea è quella di applicare nuove tariffe alle merci provenienti da Pechino: il nuovo presidente vuole imporre una tassa del 45 per cento su tutto quello che la Cina vuole vendere negli Stati Uniti. In questo modo, sostiene, sarà impossibile fare concorrenza sleale alle imprese americane, che riprenderanno a assumere manodopera locale. Un’ipotesi che è piaciuta a tanti elettori Usa, ma che appare poco realistica. In primis, perché i rapporti commerciali tra i due Paesi sono così importanti e così consolidati che troppe imprese e imprenditori – sia a Pechino che a Washington – sarebbero danneggiate da una seria rivisitazione delle regole di import- export. E in secondo luogo perché non siamo più nel 1900 e anche i cinesi sono cambiati: non lavorano più per paghe da fame, tanto che la stessa Repubblica Popolare ormai deloca-È lizza alcune sue produzioni in altri Paesi asiatici.
Ma l’importante, nella politica di Trump, non è la realtà. L’importante è la sua rappresentazione. Il futuro presidente vuole trasmettere al mondo l’immagine di una nuova contrapposizione globale in cui gli americani hanno il posto del vincitore. Ed eccola qui, la contrapposizione, che comincia a prendere forma dai primi giorni del 2017, con il governatore del Texas Greg Abbott che invita a cena la presidente di Taiwan, Tsai Ingwen, di passaggio dagli Usa per recarsi in Sudamerica. Tsai è il nemico numero uno per Pechino, perché osa rivendicare l’esistenza di un’altra Cina e mettere in discussione la one- China policy, ovvero il divieto imposto dalla Repubblica Popolare di riconoscere l’indipendenza della “provincia separatista” di Taiwan. Per questo motivo il governo cinese minaccia qualunque Stato osi invitare ufficialmente un leader taiwanese sul suo territorio e per questo motivo proprio in questi giorni il tabloid governativo di Pechino Global Times ha lanciato un avvertimento a Trump: «La Cina», scrive, «si vendicherà con gli Usa se rinnegheranno la one-China policy».
Trump, infatti, aveva già accettato una telefonata di congratulazioni arrivata da Taiwan all’indomani della sua elezione e aveva pubblicizzato il suo sprezzante disinteresse per le minacce lanciate dai cinesi. Disinteresse sottolineato anche con le prime dichiarazioni rivolte a un alleato storico di Pechino: la Corea del Nord. Accusata di procedere senza sosta nel suo programma di armamento nucleare, Pyongyang è stata minacciata da Trump – in accordo con i sudcoreani – di nuove sanzioni. Kim Jong Un ha risposto come suo solito - avvertendo gli americani che potrebbero presto ricevere una visita da un missile intercontinentale – ma è soprattutto Xi, il leader cinese, ad essersi innervosito, perché il 2017, per lui, sarà un anno cruciale. Il Partito Comunista Cinese, infatti, si riunirà quest’estate per il suo 19esimo congresso e rinnoverà tutti i suoi vertici. Un evento che, secondo il politologo Usa Ian Brenner, sarà «il più complesso e sensibile dall’inizio del periodo di riforme avviato nel 1978». Il presidente Xi, per sostenere la sua “corrente”, dovrà dimostrarsi forte e inattaccabile, anche a costo di adottare atteggiamenti aggressivi verso Washington.
La tensione, dunque, cresce. Trump ripete che fermerà la militarizzazione di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, che non ne permetterà l’espansione, e che ne ridurrà la forza commerciale. E per farlo, dichiara di contare solo su se stesso, senza fare nessuna concessione alle altre potenze asiatiche, anzi. Giappone e Corea del Sud sono chiamate a “ripagare” gli Stati Uniti per i decenni in cui la loro sicurezza è stata garantita dalla presenza militare americana. Anche in questo caso, però, le dichiarazioni di Trump vanno prese per quello che sono: un grande show propagandistico. Il Giappone, in realtà, si sobbarca già il 75 per cento delle spese di mantenimento delle basi Usa sul proprio territorio e il presidente nipponico Shinzo Abe sarà il primo leader del mondo che Trump andrà ad incontrare dopo il suo insediamento.
Ma ad avvantaggiarsi davvero della nuova guerra fredda, probabilmente, sarà il sud- est asiatico. Le borse che hanno registrato la migliore ripresa, dopo aver reagito malissimo all’elezione di Trump, infatti, sono state quelle di Thailandia, Vietnam, Indonesia, Singapore. Le tensioni tra Cina e Usa potrebbero beneficiare questa regione perché – in Asia - resta la zona più sicura dove investire. Chi vorrà evitare le nuove barriere commerciali imposte alla Cina potrà buttarsi su Paesi come l’Indonesia, che ha una popolazione immensa – 258 milioni di persone – e che può contare su un’economia basata sul mercato interno, quindi poco influenzata dal mutamento degli equilibri internazionali. È questa regione che potrebbe essere tentata di controbattere al nuovo presidente Usa, dimostrandogli come si può diventare ricchi costruendo un mercato tutto asiatico. E sfruttando la nuova guerra fredda per liberarsi sia di Pechino che di Washington.