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Che i due capi del movimento Cinque stelle convochino nella “casa” dei romani una riunione politica, le supera tutte. E il pensiero corre all’antica minaccia di chi avrebbe potuto fare delle aule sorde e grigie bivacco per i propri manipoli. S’era capito fin dal primo giorno. Quando la giunta presieduta dalla sindaca Raggi si insediò in Campidoglio, nella parte della sala Giulio Cesare riservata esclusivamente ai consiglieri, fu allestita una piccola tribuna per gli ospiti d’onore: alcuni deputati 5Stelle, qualche amico (c’era pure l’avvocato Sanmarco) e parenti.
A parte la scena del figlioletto della sindaca fatto salire sullo scranno più alto a seduta aperta e mentre era in corso lo spoglio delle schede, la presenza di estranei nell’emiciclo è stata una patente violazione del regolamento, delle consuetudini e delle prerogative dei consiglieri. Per giunta, tra gli invitati, sedevano (come detto) membri del parlamento, ossia di un organo rappresentativo di livello superiore: una mancanza di rispetto istituzionale che in tempi normali sarebbe parsa inaccettabile. Io non ho nascosto la simpatia per la nuova maggioranza. Pur avendo sostenuto il competitor della Raggi, a cose fatte ho pensato che, comunque, una forte rottura di continuità potesse risultare salutare per la città e persino per i partiti che, in forma consociativa, l’avevano governata. Nella prima giunta c’erano poi figure come Berdini, Minenna, la Marzano, Bergamo che sembravano conferire al nuovo governo cittadino un profilo netto e l’utilizzo di solide esperienze.
Quell’esordio irrispettoso mi fece però sorgere i primi dubbi sulla caratura dei nuovi ospiti del Palazzo. Intendiamoci: se fosse stato un atto di arroganza dichiarata, la volontà di stravolgere vecchi cerimoniali, l’affermazione di una nuova barbarie programmatica contro le ipocrisie, non l’avrei condivisa, ma l’avrei potuta capire. Se rivoluzione doveva essere, poteva anche permettersi un’estetica di spregio delle forme. Ma così evidentemente non era, si trattò solo di una palese violazione del protocollo, compiuta per colpevole ignoranza da parte di chi, al contrario, rivendica l’estremo rispetto della legalità. E in un ordinamento democratico attenersi alla forma, è il primo principio regolatore dei rapporti istituzionali. Su questa strada hanno proseguito. Tutta la vicenda che ha portato alla rottura col capo di gabinetto Raineri e, di conseguenza, con l’assessore Minenna, la modalità delle nomine di Marra e Romeo, con i corollari che sappiamo, sono ascrivibili a questa stessa mancanza di sensibilità. Ma che i due capi del movimento convochino nella “casa” dei romani una riunione politica, per parte della quale neanche la stessa sindaca è ammessa, veramente le supera tutte. Non v’è nessun precedente per quest’uso sconsiderato delle istituzioni.
Già è grave che il leader di un partito irrompa sulla scena di un’amministrazione scelta dai cittadini, per dettargli la linea; che poi lo stesso leader, risponda ai giornalisti sul nuovo assessore all’urbanistica «stiamo vagliando le candidature» rende ancora più esplicita la considerazione che questi ha per l’autonomia della sindaca eletta con suffragio universale e diretto. L’uso, ormai abituale, della sede pubblica per riunioni di partito dovrebbe, infine, far scattare degli anticorpi che sembrano invece ormai atrofizzati perfino tra le fila di un’opposizione che assiste passiva. Si dirà che anche altri hanno messo alla prova la correttezza istituzionale, si pensi alle modalità di defenestrazione di Marino; qualcuno potrà pensare che, in fondo, l’ossequio della forma è meno importante delle malversazioni che hanno piagato la Capitale nelle precedenti stagioni. Queste non costituiscono però attenuanti per chi, violando le regole fondamentali, dimostra scarsa dimestichezza con il mandato che gli è stato affidato.
E il pensiero corre all’antica minaccia di chi avrebbe potuto fare delle aule sorde e grigie bivacco per i propri manipoli. Del resto quelle del Campidoglio, di aule, sono tutt’altro che grigie; sorde, per il momento, pare invece di sì.