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Cappato
«Il fatto non sussiste». Sono le ultime parole pronunciate ieri dai giudici di Milano che hanno assolto Marco Cappato, accusato di aiuto al suicidio per aver accompagnato Fabiano Antoniani, noto come deejay Fabo, in una clinica svizzera. È un percorso lungo due anni e otto mesi circa quello che porta Fabiano Antoniani, noto come deeja Fabo, a varcare la soglia della Dignitas, la clinica svizzera dei suicidi assistiti. Cieco e tetraplegico dopo un incidente, si arrende quando ha la certezza di essere imprigionato per sempre nel suo corpo. Il 40enne milanese si rivolge a Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, per avere informazioni ed essere accompagnato nella struttura prescelta. «Da più 2 anni sono bloccato a letto immerso in una notte senza fine. Vorrei poter scegliere di morire, senza soffrire». scrive Fabo in una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in un video- appello in cui chiede un intervento sulle scelte di fine vita. Un altro è per i parlamentari perché abbiano «il coraggio di mettere la faccia per una legge che è dedicata alle persone che soffrono, e non possono morire a casa propria». Poi l’intervista a Le Iene. Bloccato a letto, aiutato dal respiratore, costretto a nutrirsi con un sondino, chiede una norma sull’eutanasia perché «quella che sto vivendo non è vita». Alla telecamera svela la sua decisione: «Sono assolutamente sicuro perché è una vita insopportabile. Come si fa a vivere così?». Ed è Cappato a guidare l’auto che porta Fabo in Svizzera, nella piccola struttura nella zona industriale di Pfaffikon, a 25 chilometri da Zurigo. Fabiano muore alle 11.40 del 27 febbraio 2017 con accanto la fidanzata e la madre Carmen. Da solo schiaccia il pulsante che ha permesso al farmaco che ha fermato il suo cuore di arrivare in vena. «Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo. Fabo è libero, la politica ha perso, deve capire che il vuoto normativo porta all’illegalità», l’annuncio della morte dato da Cappato via Twitter. Cappato si autodenuncia ai carabinieri di Milano il giorno dopo la morte di Fabiano. Indagato, viene chiesta l’archiviazione ma il gip Luigi Gargiulo chiede alla procura di formulare l’imputazione. Cappato chiede il rito immediato, l’ 8 novembre inizia il processo. «Questa non è più vita, aveva deciso. Cercavo qualcosa per farlo stare meglio, ma non l’ho trovato. Mi diceva “non ti devi sentire sconfitta perché questa è una vittoria”», racconta la fidanzata Valeria. «Per farlo andare via sereno gli ho detto “Vai Fabiano, la mamma può continuare, voglio che tu vada”», le parole tra le lacrime di Carmen Carollo. L’accusa chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste. «Cappato è imputato per aver aiutato qualcuno nell’esercizio di un suo diritto: non al suicidio, ma il diritto alla dignità». In subordine i pm avanzano «una richiesta di legittimità costituzionale» sull’articolo 580 del codice penale; in caso di condanna, invece, la trasmissione degli atti perché si possa procedere contro chiunque ha ’ aiutatò Fabo. Prende la parola in aula: «Piuttosto che essere assolto per un atto giudicato irrilevante preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere». Il primo verdetto - Al termine di quattro udienza intese, il 14 febbraio 2018 i giudici della prima sezione della corte d’Assise sono chiamati a decidere: possono assolvere Cappato riconoscendo che non abbia avuto un ruolo determinante nel suicidio di Fabo; possono condannarlo o decidere di mandare gli atti alla Corte Costituzionale sollevando una questione di legittimità costituzionale sul reato di aiuto al suicidio, perché in contrasto con il diritto fondamentale della dignità della vita. Dopo quasi 5 ore di camera di consiglio la corte ha deciso: gli atti vanno trasmessi alla Consulta. La Consulta. La Corte Costituzionale esclude in determinati casi la punibilità dell’aiuto al suicidio e stabilisce che saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza delle condizioni che lo rendono legittimo. Per esempio, quando si tratta di una persona tenuta in vita con l’idratazione e l’alimentazione artificiale in quanto soffre di una malattia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Dopo 22 mesi, il 23 dicembre 2019 si torna in aula e le parti chiedono l’assoluzione dell’imputato. Al termine di una camera di consiglio durata un’ora, Ilio Mannucci Pacini il giudice che presiede la prima corte d’assise di Milano, assolve Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio «perché il fatto non sussiste». Per il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano è una «giornata storica», pensieri condivisi dai difensori dell’imputato; l’avvocato Filomena Gallo invoca «una legge del Parlamento sul fine vita». Assente la mamma di Fabiano, felice la fidanzata Valeria Imbrogno che commenta: «Oggi mi avrebbe chiesto di festeggiare, siamo arrivati alla vittoria». Segue il codazzo delle diciarazioni politiche. Dal leghista Simone Pillon: «Stiamo andando verso il suicidio di Stato e ci siamo persi qualsiasi riferimento alla sacralità della vita». Al dem Marcucci: «La politica ora smetta il festival delle ipocrisie, va fatta subito una legge di civiltà. Ricordo che i senatori del Pd da oltre un anno hanno depositato e sottoscritto ben due diverse proposte. Ora si trovi il coraggio di procedere».