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Esiste una costante nel modo in cui Matteo Renzi ha fin qui organizzato la sua azione politica: non gli piace traccheggiare. Lo spartito che preferisce è quello dello spariglio: alzare la posta, rilanciare, prendere gli avversari d’infilata. E’ una premessa indispensabile per interpretare nel modo giusto le prossime mosse del leader Pd, prima fra tutte le possibili dimissioni per avviare l’iter congressuale. Il congresso è esattamente ciò che gli chiede la minoranza interna. Ma se Renzi accede all’idea non è per arrendersi: al contrario punta a far sua quella bandiera, strapparla dalle mani di chi vorrebbe pensionarlo infilandogli addosso il saio dell’esodato, e usarla ai suoi fini. Quali? Uno, primariamente, e sempre lo stesso: le elezioni a giugno. Ogni altra data, infatti, minaccia di logorlarlo fino alla consunzione. Vogliamo, per esempio, parlare di cosa accadrebbe se il congresso si tenesse in autunno dopo le amministrative che, ad occhio, dovrebbero rappresentare un’ennesima dèbacle per il Nazareno, e nel mezzo della prepara- zione di una legge di Stabilità con gli occhi della Ue addosso? Assise del genere per Renzi diventerebbero poco più di una passerella verso il baratro.
Dunque congresso sì, ma presto: prestissimo. Praticamente subito. Con l’obiettivo, naturalmente, di vincerlo e sopratuttto di lasciarsi intatta la possibilità - ma senza annunciarlo ufficialmente per non essere attaccato di intenti strumentali - di precipitare alle urne prima dell’estate. Potrebbe essere questo il registro della riunione della Direzione di lunedì prossimo: un colpo di scena fatto di dimissioni e via libera al congresso. Con tanti saluti agli avversari: annichiliti.
Un’autostrada, dunque? Non proprio. Perché se questa è la road map di Matteo, i suoi antagonisti ( e fin qui nulla di strano) ma soprattutto i suoi alleati ( e allora la questione si ingarbuglia) non la pensano allo stesso modo. Partiamo dai primi, che è più facile. Quale sia l’obiettivo della sinistra interna l’ha spiegato con la solita nettezza Massimo D’Alema che pure gioca in proprio e non fa parte della brigada: discontinuità di linea politica e ricambio di leadership. In pratica il congresso dovrebbe servire a dare il benservito all’attuale leader (obiettivo massimo) oppure a condizionarlo fin quasi ad azzerare i suoi margini d’azione (obiettivo minimo e più realistico). Ma in ogni caso niente anticipi: il principale effetto del condizionamento essendo esattamente quello di concludere la legislatura nel 2018, scrivendo una legge elettorale quanto meno priva dei capilista bloccati.
Ma, come detto, fin qui siamo nella fisiologia dello scontro in atto in seno al partito. Ciò che rende la fibrillazione a rischio infarto è che nemmeno le fila della maggioranza - almeno nelle componenti che si richiamano a Dario Franceschini e, presumibilmente anche ad Andrea Orlando - la fretta di andare al voto è condivisa: casomai il contrario. Perciò congresso ok, nessun problema. Ma organizzato in maniera e con tempi tali da far svolgere le elezioni l’anno prossimo. Un’autostrada certo, ma interrotta da uno svincolo obbligatorio: allontanere lo scioglimento delle Camere. È così che la vede il corpaccione del partito, quello a cui mercoledì scorso l’appello dei 41 senatori per il sostegno a Gentiloni e il voto a scadenza naturale ha dato voce.
La trattativa di queste ore verte esattamente su questo punto: i settori non renziani della maggioranza Pd sostengono l’affondo del segretario per il congresso ma non condividono l’idea di farlo in modo da consentire il voto a giugno. Difficile che il Renzi, che non ama traccheggiare, li ascolti. Difficile anche che quegli stessi settori possano acconsentire a ciò che allo stato appare un azzardo perchè votare a stretto giro potrebbe significare consegnare il governo ( e il Paese) nelle mani di Grillo. Prospettiva che anche sul Quirinale, eufemisticamente, non solleva entusiasmi.
Non basta. Sullo sfondo c’è anche un altro nodo, tutt’altro che semplice da sbrogliare ma che invece risulta decisivo: la legge elettorale. Renzi sembra fare spallucce. Gli va bene qualunque schema che però assegni il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione: in pratica com’è adesso l’Italicum.
Ma non è ciò che vuole Franceschini e con lui pure l’Ncd di Angelino Alfano: entrambi infatti per le coalizioni stravedono. Dall’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia al titolare della Farnesina: si può fare? Il peggiore degli incubi, avverte Matteo Orfini. E dunque che alleanza si costruisce? Senza contare che quel premio farebbe gola anche al centrodestra, pronto a ricompattarsi per l’appuntamento elettorale. Ma se è così, il Pd finisce anche di rischiare di arrivare terzo, dopo i Cinquestelle e la ritrovata armata berlusconiana. E a quel punto che succede?