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«Non ho mai percepito, constatato o mi fu detto che il gruppo Falcone e Borsellino aveva rapporti con i Servizi. Constai che un soggetto, che si presentava come capo centro della sede Sisde di Caltanissetta, Rosario Piraino, aveva l’abitudine di frequentare non solo la procura nissena ma anche alcuni colleghi della giudicante. Io non ho mai avuto rapporti con i Servizi, che sappia neanche i colleghi Petralia e Palma». Lo ha detto Nino Di Matteo, consigliere del Csm ed ex pm a Caltanissetta, rispondendo ieri alle domande dell’aggiunto Gabriele Paci, al processo sul depistaggio sulle indagini di via D’Amelio, in corso al tribunale di Caltanissetta.
Imputati di calunnia aggravata tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo Falcone- Borsellino della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire Vincenzo Scarantino, rivelatosi poi un falso pentito. Mentre a Messina sono indagati per reato connesso i magistrati Carmelo Petralia e Annamaria Palma. L’attuale consigliere del Csm ha fatto anche chiarezza circa gli interrogatori nei giorni in cui per la prima volta, nel 1994, sentì Scarantino a Genova.
«Non ci furono pause durante quegli interrogatori - ha spiegato - e lo ricordo bene perché a un certo punto era necessario per Scarantino rifocillarsi e io non gli consentii di uscire chiedendo di portare dei panini nella stanza in cui eravamo. Ci mettemmo in due angoli diversi e mangiammo e mentre eravamo lì pensavo: “sto mangiando nella stessa stanza con chi ha detto di aver partecipato a un fatto per cui io ho pianto amaramente”». E delle segnalazioni da parte di Ilda Boccassini che appurò le falsità di Scarantino? «Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino – ha spiegato Di Matteo - solo tra il 2008 e il 2010. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar».
Sul discorso di Bruno Contrada, l’ex numero 3 dei servizi segreti, Di Matteo ha spiegato che indagò su di lui sull’ipotesi della sua presenza in via D’Amelio dopo la strage. «Fui io - ha spiegato il consigliere del Csm - a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende». Vedendo quegli atti Di Matteo si accorse che c'era stato un ufficiale del Ros, Carmelo Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. «I poliziotti - ha spiegato Di Matteo - avevano fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte».
La vicenda è nota. È su Contrada a cui, nell’ordine il maggiore dei carabinieri Carmelo Sinico, il maresciallo Carmelo Canale e poi i pentiti Gaspare Mutolo e Francesco Elmo, rivolsero le loro dichiarazioni accusatorie, in merito al suo ritenuto coinvolgimento nelle stragi mafiose e via D’Amelio. Ci vollero 3 anni perché le dichiarazioni mai riscontrate dei primi due venissero archiviate: era il 7 marzo del 1995 quando il gip di Caltanissetta provvedeva all’archiviazione del procedimento, che nel frattempo era stato aperto con la contestazione dell’art 422 cp, cioè per il delitto di strage nell’attentato di Via D’Amelio. Scrive il gip di Caltanissetta a proposito della traccia investigativa che fu offerta da Sinico, che «quanto alla dichiarazione del Cap. Sinico circa la presenza di Contrada in Via D’Amelio nell’immediatezza dell’esplosione, nessun elemento è stato acquisito nel corso delle indagini tale da suffragare detto assunto». A ciò si aggiunge il fatto è che Contrada, parlando con gli inquirenti, provava, anche citando testimoni a sostegno delle sue affermazioni, che in quei giorni non era neppure a Palermo ma che si trovasse a bordo di una barca. Il giudice definisce questa circostanza come un «alibi di forte persuasività, in quanto confermato da diversi testimoni che hanno riferito che l’indagato si trovava sulla barca in loro compagnia quando fu compiuta la strage».
Nelle scorse settimane, dopo la pubblicazione delle intercettazioni tra i pm e l’ex collaboratore Vincenzo Scarantino, era nata una polemica sulla “preparazione” del falso pentito da parte dei magistrati. E oggi l’ex pm del pool sulle stragi mafiose, ha voluto spiegare la parola “preparazione”. Sul punto Di Matteo ha detto dice: «Si è parlato dell’attività di preparazione del collaboratore di giustizia. Ricordo che in occasione di interrogatori che venivano verbalizzati e che erano prossimi all’impegno dibattimentale del processo Borsellino ter io ho preparato i collaboratori Salvatore Cancemi, o Giambattista Ferrante oppure Onorato. Cioè tutti quelli che smentivano Scarantino. Ma che cosa significa preparare, dire al collaboratore “lei giorno tot comparirà davanti alla Corte d’assise”. Oppure “gli argomenti saranno questi” e ancora “dica la verità”, né una cosa in più né una cosa in meno. Oppure “esponga in chiarezza, non entri in polemica”. Questo vuol dire preparare un collaboratore».
Poi Nino Di Matteo ha voluto anche dire che secondo lui la strage di via D’Amelio non era solo di Cosa nostra, ma è una tesi che ha portato avanti da sempre, fin da quando imbastì il processo sulla trattativa Stato- mafia.