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La decisione del giudice sportivo di infliggere una squalifica di due giornate al difensore del Napoli Kalidou Koulibaly può avere tante spiegazioni tecniche ma ha un solo effetto sull’opinione pubblica: il via libero al razzismo concesso dalle massime autorità calcistiche italiane.
Via libera, peraltro, che viene confermato dalla scelta della federazione gioco calcio di non accogliere le richieste di sospendere il campionato almeno per un giorno, dopo la serata da cani di Milano, con un morto e vari feriti provocati dagli agguati degli Ultras.
Sulla scelta di non sospendere il campionato si possono avere molti pareri diversi. Anche se a me sembra che sia semplicemente una scelta opportunistica. Fondata sulla necessità di far prevalere gli interessi del mercato sull’affermazione di alcuni valori culturali.
Sulla decisione di punire il difensore africano del Napoli, colpevole di essersi innervosito dopo aver giocato l'intera partita in uno stadio che gli lanciava insulti razzisti e buu ogni volta che lui toccava la palla, non esiste invece nessuna possibilità di fraintendimento. Il giudice sportivo ha stabilito di ignorare il linciaggio subito da Koulibaly e di punire la vittima del linciaggio. Il quale, semplicemente, aveva applaudito ironicamente l’arbitro, dopo che l’arbitro si era rifiutato - sebbene sollecitato per tre volte dall’allenatore del Napoli - di sospendere la partita - come previsto dal regolamento - per fermare la bolgia razzista.
Qual è l’episodio che ha caratterizzato la partita Inter- Napoli di mercoledì sera: l’applauso scherzoso di Koulibaly o il suo linciaggio? Non è difficile rispondere a questa domanda, neppure per un burocrate poco avvezzo, magari, alle cose del mondo.
E allora qual è l’unica giustificazione possibile per la decisione del giudice sportivo contro l’atleta africano? L’unica spiegazione è che questo prevedeva il regolamento, e che le norme sono precise e vanno applicate e basta. Beh, se è così non si capisce proprio cosa ci stia a fare un giudice: un computer, anche di basso costo, può funzionare molto meglio.
I giudici devono giudicare la situazione, il contesto, il significato degli atti, le attenuanti o le aggravanti. Coulibaly era in tutto e per tutto dalla parte della ragione. La sua critica ironica a un arbitro che si era dimostrato assolutamente non all’altezza della situazione, non aveva niente di provocatorio o di illegale. L’arbitro ha fatto malissimo a espellerlo, condizionando oltretutto il risultato della partita, e il giudice sportivo doveva riparare e non aggravare - come ha fatto l’errore dell’arbitro.
Non farlo ha voluto dire piegarsi e dare ragione ai razzisti. Ora ci sono solo due cose sicure. La prima è che negli stadi italiani il razzismo sta dilagando, forse anche sospinto dai giornali e dalla politica. Sta stravincendo la sua partita.
L’altra cosa certa è che il razzismo diventa imbattibile se è sostenuto dall’establishment.
Negli Stati del Sud degli Usa, negli anni sessanta, il razzismo sembrava impossibile da sradicare perché gran parte delle classi dirigenti era dalla parte del Ku Klux Klan. Politici, giudici, poliziotti. Il governatore dell’Alabama, nel 1963, schierò la polizia locale per impedire allo studente nero James Meredith di andarsi a iscrivere all’Università, come era suo diritto. Come poteva difendersi Meredith, se il potere era dalla parte dei razzisti? Meredith trovò la soluzione: si rivolse al governo centrale, a Washington, e a Washington c'era Kennedy, e Kennedy mandò la guardia nazionale che spazzò via la polizia locale e Meredith si iscrisse. Ma, appunto, in quel caso l’establishment nazionale si schierò contro il potere locale. Non sembra che in Italia esista questa possibilità.
E francamente pretendere che la rigorosa applicazione di alcune norme possa essere la spiegazione di tutto questo a me pare una cosa impresentabile.
Mi torna in mente un episodio di quando ero ragazzino. Avevo 12 anni e andavo a scuola dai preti. Dai gesuiti, per la precisione. In classe con me, che facevo la seconda media, c’era un ragazzino ebreo, che era esentato dalla religione, dalla messa, e che in questo modo appariva un po’ diverso da noi cattolici “regolari”. Noi gli volevamo bene. Soprattutto perché giocava benissimo a pallone, era un grande atleta, era forte. Un giorno, a ricreazione, un ragazzino più grande, di quinto ginnasio, gli disse, a freddo: «Sporco ebreo». Il mio amico non ci pensò due volte e con un pugno violento al naso stese il ragazzo antisemita. Lo stese a terra, in un laghetto di sangue. Intervennero i professori. Ci fu una riunione del consiglio di istituto per decidere come e chi punire. Il ragazzo di quinto ginnasio fu condannato a cinque giorni di sospensione, il mio amico assolto. Assolto perché si era difeso da una provocazione intollerabile.
Ci diedero una bella lezione di vita i gesuiti, peraltro in un periodo ( primi anni sessanta) nel quale nella borghesia italiana l’antisemitismo era molto diffuso.
Sì, loro sapevano come si amministrava la giustizia. E come si poteva dare, ai ragazzi, un messaggio antirazzista. Stavolta è andata in modo diverso. I razzisti tutti assolti e hanno punito “il negro”.