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È come se stessero processando l’intera storia della Turchia moderna: con i suoi 93 anni di vita Cumhuriyet ha infatti la stessa età della Repubblica fondata da Mustafà Kemal Ataturk. Fin dal primo numero, uscito il 7 maggio del 1924, veniva annunciata la sua ragione ideologica: «Combattere le la laicità e la scienza contro l’oscurantismo e la religione».
Da ieri il quotidiano dell’opposizione laica, l’ultimo rimasto nel deserto democratico turco, è infatti alla sbarra nel palazzo di Giustizia Çaglayan di Istanbul: 19 tra giornalisti, vignettisti e impiegati del più antico giornale del Paese sono accusati di finacheggiare organizzazioni terroristiche, in particolare la fantomatica rete del predicatore Fethullah Gülen ritenuto responsabile del fallito colpo di Stato dello scorso anno. Ma anche di sostenere le formazioni indipendentiste curde del Pkk e del Dhkp- c. Rischiano fino a 43 anni di reclusione. La maggior parte degli imputati ( 12 su 19) sono in prigione da nove mesi, sei sono ancora in libertà mentre l’ex caporedattore Can Dündar è rifugiato in Germania e verrà giudicato in contumacia.
Le accuse si fondano sul contenuto di alcuni articoli, su sporadiche affermazioni apparse nei loro account twitter e sulle immancabili intercettazioni telefoniche. Ma, come spiegano i loro avvocati, non esiste alcuna prova tangibile delle presunte implicazioni della redazione con gruppi terroristici: «Tutto il processo ruota attorno a delle accuse bidone, non c’è nulla che possa provare i legami con quelle organizzazioni, hanno riesumato delle intercettazioni senza interesse e vogliono farci credere che si tratti di un affare di Stato», tuona Abbas Yalcin, uno dei difensori del quotidiano.
L’inchiesta di Cumhuriyet che ha mandato ai pazzi Erdogan e la sua cricca risale al maggio 2015 e riguarda delle forniture di armi che l’esercito di Ankara ha clandestinamente consegnato oltre il confine siriano ai jhiadisti dell’Isis tramite dei tir. Uno scoop che il governo non è mai riuscito a smentire ( esistono delle immagini inequivocabili dello scambio di armi) e che dimostra come la Turchia utilizzi i miliziani jihadisti per combattere gli odiati curdi aumentando l’instabilità nelle regioni rivendicate dagli indipendentisti, lo stesso metodo impiegato dal siriano Assad, per la cronaca. Alla fine della vicenda un tribunale condanna proprio Can Dündar a 100 giorni di carcere, non per aver diffamato le istituzioni divulgando notizie false, ma per aver violato il segreto di Stato.
Negli ultimi dodici mesi l’opera di distruzione della stampa libera da parte del presidente Erdogan e del suo partito (Akp) è stata feroce e sistematica: non solo redazioni chiuse con il manganello e giornalisti arrestati, i metodi con cui il “sultano” è riuscito a spegnere ogni voce critica possono essere anche più sottili e sofisticati. Se un tempo bastava mettere a libro paga qualche direttore per ottenere un’informazione prona oggi è più conveniente comprarsi tutto il comparto editoriale nazionale.
Si sceglie un grande imprenditore “amico”, quasi sempre nel settore delle costruzioni in grande espansione negli ultimi anni, e gli si mette in mano un impero editoriale in cambio di lauti appalti per i cantieri pubblici di autostrade, ponti, ferrovie. Un intreccio diabolico di autoritarismo e corruzione, ma anche una perfetta fotografia del sistema di potere si cui su regge la Turchia erdoganiana.
Oggi la quasi totalità di quotidiani, settimanali, network televisivi parla infatti la lingua del regime di cui diventa uno stucchevole megafono. Poi ci sono quelli che gli oppositori chiamano con amara ironia i «media pinguino», ossia le tv inoffensive, che trasmettono in continuazione musica classica e documentari naturalistici sulla vita degli animali selvaggi anche quando nelle piazze ribolle la protesta contro il governo.
Con i suoi duecento lavoratori, le 50mila copie vendute in edicola e il milione mezzo di contatti quotidiani sul sito web, Cumhuriyet rimane di fatto l’unica e l’ultima voce libera dell’informazione in Turchia. Una vocazione progressista che ha difeso nel corso di tutta la sua storia, scontrandosi con le dittature militari prima e con gli islamo- conservatori del Akp poi, pagando peraltro un pesante tributo di sangue alla causa con sette giornalisti assassinati e decine di altri torturati in prigione.
Il segreto della sua indipendenza è che il giornale non appartiene a un editore privato ma ai giornalisti stessi i quali si sono associati in una cooperativa, anche se negli ultimi tempi le finanze del quotidiano sono in un drammatico rosso con gli inserzionisti pubblcitari in fuga per il timore di venire colpiti dalle purghe del regime. La mancanza di fondi e le ristrettezze economiche non hanno mai impedito a Cumhuriyet di rivendicare posizioni coraggiose e impopolari. Quando nel gennaio del 2015 i fratelli Said e Sheriff Kouachi irrompono nella redazione parigina di Charlie Hebdo massacrando 12 persone in nome del jihad contro i blasfemi disegnatori del settimanale satirico, Cumhuriyet si schiera senza esitazioni con i colleghi francesi ripubblicando le vignette incriminate e ricevendo centinaia di minacce di morte da parte dei tanti gruppi di fanatici fondamentalisti tollerati se non addirittura incoraggiati da Ankara.
Un senso della libertà intollerabile per il presidente Erdogan, anche e soprattutto dal punto di vista simbolico. Così lo scorso 14 novembre alle prime luci dell’alba la polizia irrompe nelle abitazioni di 14 impiegati di Cumhuriyet sequestrando computer, telefoni, agende e sbattendoli tutti in custodia cautelare. Dopo cinque giorni di isolamento totale il procuratore rimette in libertà vigilata due contabili e due giornalisti per via dell’età avanzata e conferma l’arresto per 12 membri della redazione che finiscono nel blocco numero 9 del carcere di Silviri, tristemente noto per le ripetute violazioni dei diritti umani che sono state commesse al suo interno.
Come scrive il giornalista investigativo Ahmet Sik, in manette da dicembre, «non è complicato capire l’accanimento di Erdogan nei confronti di Cumhuriyet: lui vuole trasformare il paesaggio mediatico del Paese in un innocuo giardino di rose, la nostra redazione rappresenta tutte le sensibilità delle diverse correnti laiche e progressiste che esistono in Turchia, ma abbiamo tutti un punto in comune, non ci facciamo intimidire dal potere e della censura e non esitiamo a pubblicare una notizia vera per paura di ritorsioni».