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Il centro di permanenza e rimpatrio ( Cpr) di Torino torna nuovamente alla ribalta delle cronache per la rivolta di domenica scorsa degli “ospiti”, che ha provocato il ferimento di un poliziotto al quale i sanitari hanno dato trenta giorni di prognosi.
«Per un po' non voglio sentire parlare di comprensione, integrazione e accoglienza». Comincia così il messaggio che ha postato su Facebook il poliziotto rimasto ferito durante quella che ha definito «una notte di guerriglia passata al Cpr di Torino». Scrive ancora: «Trenta giorni di prognosi, una bella frattura scomposta di due falangi con prospettazione di intervento chirurgico, due monconi malamente appesi che improvvisamente vanno in direzione opposta a quella che il tuo cervello vorrebbe fare... e mentre i “' signori” della politica fanno il gioco delle poltrone, facendo a gara a chi di loro si rivela essere il più capriccioso, in questi Centri di Permanenza e Rimpatrio a ogni turno si sfiora la tragedia e prima o poi - credetemi - qualcuno si farà male sul serio».
Non si è fatto attendere il ministro degli Interni, Matteo Salvini. «Solidarietà al poliziotto e a tutte le forze dell'ordine. Sono orgoglioso – scrive il leader della Lega - di aver inasprito le pene per chi attacca le donne e gli uomini in divisa e per aver fermato l'immigrazione clandestina. Se il Pd vuole riportarci indietro e ha nostalgia del business dell'invasione, lo dica chiaramente agli italiani».
Ma se c’è stata una rivolta - non l’unica - nel Cpr di corso Brunelleschi di Torino, non si può non tener conto delle cause che l’hanno scatenata. Ricordiamo che nella notte tra il 7 e l’ 8 luglio è morto un uomo di origine bengalese, Faisal Hossai, 32 anni.
Era stato posto in isolamento per ragioni non ancora chiarite, nonostante tale disposizione punitiva non sia prevista all’interno di queste tipologie di strutture. Alla notizia della morte del compagno del centro, di cui ancora erano ignote le cause, alcuni migranti hanno iniziato una protesta che ha causato piccoli incendi in alcuni moduli della struttura.
A svolgere le indagini sono state la squadra mobile della questura di Torino e la procura, al termine delle quali è stata esclusa qualsiasi ipotesi delittuosa e il decesso è stato associato a un arresto cardiaco. I reclusi del centro hanno quindi messo a fuoco materassi e mobili, mentre in serata attorno alle mura del Cpr si sono raccolti numerosi solidali.
Da dentro arrivavano forti le voci delle persone rinchiuse e il grido “libertà” ha accompagnato lo svolgersi del presidio. La polizia ha risposto sparando lacrimogeni nel Cpr e al tentativo di blocco da parte dei manifestanti, in una delle strade adiacenti, sono partite delle violente cariche. Ma il Cpr di Torino è stato da sempre al centro delle rivolte per denunciare lo stato di degrado nel quale riversa.
Vengono definiti “ospiti”, ma in realtà i migranti vivono in condizione di reclusione nonostante non abbiano commesso alcun reato. Una reclusione peggiore di quella rispetto ai detenuti che scontano la pena nelle carceri.
La situazione degli ospiti verte in situazioni preoccupanti, sia dal punto di vista della vita quotidiana, che scorre senza alcuna attività che impegni le ore della giornata, il che comporta delle evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica di quanti vi dimorano anche oltre sei mesi, sia per quanto riguarda le condizioni materiali degli ambienti, lasciati in condizioni di deterioramento strutturale e igienico.
Tutte osservazioni ribadite puntualmente dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, con le relazioni annuali. Ricordiamo, appunto, che i Centri di Permanenza per i Rimpatri ( Cpr), rinominati ( prima si chiamavano Cie) dalla legge Minniti- Orlando ( L 46/ 2017), sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
LasciateCiEntrare, la campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, a proposito dei fatti del Cpr di Torino, ha ricordato che le rivolte scaturiscono perché risulta l’unico via dei migranti per avere visibilità e denunciare all’opinione pubblica il degrado nel quale vivono.
La campagna nazionale ha deciso di lanciare, per la seconda volta, “alimentiamo la protesta”, ovvero una raccolta di cibo in solidarietà a chi viene recluso perché non ha documenti che attestino la legittimità della sua esistenza.