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Il presidente dell'Unione Camere penali Beniamino Migliucci (foto Giorgio Varano)
Cesare Placanica non ce la fa a parlare. Riafferra il microfono ma ha le labbra serrate. Altrimenti le centinaia di presenti si accorgerebbero che è sul punto di piangere. Ha appena ripreso il palco lasciato qualche minuto all’avvocato Manfredo Rossi. «Uno dei magnifici sette», Placanica lo aveva presentato così. E in effetti Rossi è uno dei sette che, guidati da Nicola Madia, fondarono la Camera penale di Roma nel 1960. «I media ci vogliono rubare la materia del contendere, il processo non può finire fuori dalle aule di giustizia», ha detto Rossi, con una passione, un calore, una fede nelle idee che racchiudono il senso di questo congresso straordinario dell’Unione Camere penali. Non ci si vede «per le cariche», come fa giustamente notare Rita Bernardini, ma per affermare una visione della giustizia: “Dalla separazione delle carriere all’affermazione dello Stato di diritto”, secondo l’intitolazione scelta dal presidente Beniamino Migliucci. Gli avvocati, i penalisti, fanno tutto questo perché ci credono. Ecco cosa attesta Manfredo Rossi con la sua generosa preoccupazione. Ecco cosa dice Cesare Placanica, attuale presidente dei penalisti di Roma, dopo aver ritrovato la forza di gestire la commozione: «Noi questo siamo». Sulla strada giusta Applausi, tantissimi, a Rossi, Placanica, Migliucci. E a tutti i rappresentanti dell’avvocatura e delle istituzioni che intervengono al Parco dei principi di Roma, nella prima della tre giorni dell’Ucpi. Se domani si entrerà nel vivo con quattro sessioni di studio, nella prima giornata si mette già insieme il nucleo del progetto dei penalisti sulla futura politica della giustizia. Soprattutto si riporta un segnale d’auspicio: «Sono sempre più numerose le figure autorevoli della società che adottano le nostre parole d’ordine», fa notare Migliucci nella sua relazione. Quindi nonostante i molti passi falsi dell’ultima legislatura, che pure il presidente delle Camere penali elenca, l’avvocatura può dire di essere sulla via giusta. L’unica percorribile, seppure in due sensi di marcia. Da una parte proporre leggi come quella che punta a separare le carriere di giudici e pm, dall’altra trasmettere ogni possibile sollecitazione alla politica affinché essa stessa cambi strada. Sempre Migliucci dice: «Se continuiamo a denunciare la contrarietà di certi provvedimenti ai princìpi del giusto processo, riusciremo a concorrere alla lenta ma progressiva ricostruzione dello Stato di diritto. Abbiamo la possibilità di incidere sulle scelte del futuro». Non è impossibile, insomma, interrompere la spirale impazzita delle leggi giustizialiste e corrotte da quello che lo stesso ministro Andrea Orlando, ieri assente ma atteso da Migliucci, definisce «panpenalismo». Politica irrecuperabile? Non è detto Certo, c’è anche una lettura diversa, più catastrofista. Tra i primi a portare il loro saluto c’è il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti. Punta il dito contro la sua parte, la politica appunto, «che ha più responsabilità di tutti perché usa le indagini come arma contro l’avversario». Arriva Fabrizio Cicchitto e la ancora più nera: «Non tutta la politica ragiona così. Io no, per esempio, ma appartengo alla parte sconfitta. Ha vinto il giustizialismo e il Codice antimafia è solo l’ultimo esempio. Resta solo, cari penalisti, la vostra battaglia per la separazione delle carriere». Ma è un ex ministro, Enrico Costa, uscito dal governo anche in dissenso sulle scelte in materia di giustizia a dire: «Proprio i radicali hanno perso tante battaglie eppure hanno un’identità: vincere in un voto d’aula può anche voler dire perdere nella sostanza». E alla fine è proprio Migliucci, nella sua relazione, a sostenerlo: «Giustizialismo e populismo dominano, la cultura dei diritti sembra essere affidata a una minoranza», eppure «la cultura della minoranza può diffondersi sempre più». L’alleanza con la magistratura responsabile Ecco l’obiettivo dell’avvocatura: seminare i princìpi di giustizia nonostante tutto. E a partire da un altro connotato del riscatto possibile: «Rafforzare sempre più il dialogo tra magistratura e avvocatura», come ricorda presidente del Cnf Andrea Mascherin, «che, se riescono a trovare soluzioni insieme, assumono una forza impossibile da fermare per lo stesso Parlamento». Nella persistente sordità dei partiti, può inaspettatamente supplire proprio l’alleanza tra i due grandi soggetti della giurisdizione. Legnini ricorda che «è in atto un cambiamento evidente: il rapporto tra avvocati e giudici è proficuo da sempre, ma mai come nell’ultimo anno è cresciuto un rapporto nuovo tra l’organo di governo autonomo dei magistrati e l’organo di governo degli avvocati, il Cnf». Il vertice di Palazzo dei Marescialli ricorda «il protocollo d’intesa firmato nel luglio 2016 e attuato nei mesi successivi da un numero di ulteriori accordi su specifiche questioni, dall’organizzazione alla protezione internazionale, quanti mai se n’erano visti negli anni precedenti». Mascherin a sua volta ricorda «l’altro modello, opposto al nostro, disegnato dal dottor Davigo, in cui addirittura l’imputato di un reato che va in prescrizione dovrebbe vergognarsi. Casomai è il dottor Davigo che dovrebbe provare vergogna nell’attaccare un principio dello Stato di diritto». Applausi rabbiosi dalla sala. «Ho rivisto un film», continua Mascherin, «Ritorno al futuro 2, in cui lo scienziato spiega al protagonista che nel futuro i processi sono velocissimi perché sono stati aboliti gli avvocati. Ecco, se la politica è ostaggio del populismo, saremo noi avvocati ad allearci con la magistratura che si dissocia dal processo di Ritorno a futuro. Noi abbiamo un secondo soffio vitale, il sentimento di difesa: e la battaglia è già vinta perché i sentimenti non possono essere aboliti». Manfedo Rossi, di sicuro, è convinto che sia così.