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Resta grave la situazione nella Repubblica Democratica del Congo, dove nei giorni scorsi si sono verificati feroci combattimenti tra gruppi di ribelli, compreso l’M23, sostenuto dal Ruanda, che si è impadronito della città di Goma (nella regione del Nord Kivu), e l’esercito regolare, intento a difendere la capitale Kinshasa. Secondo Medici senza frontiere, soprattutto a Goma, «persistono sacche di tensione in alcuni quartieri, dove sono ancora presenti l’esercito congolese e gruppi armati locali». In questa città, grazie al lavoro della Croce Rossa, è iniziato il recupero dei corpi senza vita, sparsi per le strade, mentre gli ospedali sono al collasso per l’alto numero di feriti. Le vittime sarebbero almeno un migliaio. Gli italiani presenti nel Paese africano sono circa 800 (17 dei quali ancora a Goma).
La magistrata Silvana Arbia, già Prosecutor presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, conosce molto bene l’Africa. Il genocidio del 1994 ha sconvolto la regione dei Grandi laghi, con le tossine dell’odio, alle quali si sono aggiunti forti interessi economici, che non si davvero mai dissolte. Le violenze di questi giorni lo dimostrano con il rischio di una guerra civile e di una guerra regionale.
«Oggi – dice al Dubbio Silvana Arbia - si riacutizza una crisi grave che affligge la Repubblica democratica del Congo da quando esiste, con conflitti mai cessati in un’epoca che doveva restituire al popolo congolese la libertà da una spietata e cinica colonizzazione da parte di più Stati che si sono spartiti il territorio, sfruttandolo e impedendone lo sviluppo, la conservazione della loro cultura e della loro identità, impadronendosi delle immense risorse naturali che dovevano appartenere agli stessi congolesi. Oggi la situazione è ancora più grave perché ai colonizzatori del passato si sostituiscono spietati governi africani della stessa regione e enti privati».
Non si può conoscere a fondo la condizione della Repubblica Democratica del Congo tenendola scollegata rispetto ad altre realtà. «È un Paese – spiega Arbia - che va considerato nel contesto della regione dei Grandi Laghi Africani, che comprende il Burundi, il Ruanda, l’Uganda e le province orientali della RDC. Non si tratta soltanto di un contesto geografico, poiché questa regione è uno spazio in cui le popolazioni hanno in comune la lingua, la cultura e legami familiari. Sul piano economico, con implicazioni politiche, in epoca recente, poi, va considerata l’adesione della RDC alla Comunità dell’Africa Orientale, la East African Community, di cui è oggi presidente di turno William Ruto, presidente del Kenya, il quale ha convocato il 29 gennaio un incontro tra Paul Kagame, presidente del Ruanda, e Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, sulla crisi attuale. Da informazioni disponibili, il presidente della RDC non ha accolto l’invito ed è sfumata una possibilità che si pensava utile a sbloccare la situazione».
In tale contesto il Ruanda sta soffiando sul fuoco con un intento ben preciso. «La responsabilità del Ruanda – evidenzia Silvana Arbia - emerge da rapporti ufficiali. Esperti delle Nazioni Unite, riportano circostanze dalle quali emerge che l’M23, che dice di essere un gruppo di ribelli congolesi il cui obiettivo è la protezione della minoranza tutsi in Congo, è sostenuto dal governo ruandese. Un membro della missione di peacekeeping dell’Onu, Jean-Pierre Lacroix ha dichiarato che senza dubbio le truppe ruandesi supportano l'M23. Pure gli esperti delle Nazioni Unite, secondo informazioni di fonti giornalistiche accessibili a tutti, affermano che la decisione dell’M23 di catturare la città mineraria di Rubaya, è stata “motivata dalla necessità strategica di monopolizzare” il lucroso commercio del coltan, utilizzato per produrre batterie per veicoli elettrici e dispositivi telefoni mobili».
Ritornano gli spettri del passato, dopo il genocidio ruandese, con gruppi etnici che si fronteggiano violentemente? «Il rischio esiste», secondo l’ex Prosecutor del Tpi. «L’etnia – aggiunge Arbia - può essere strumentalizzata con la propaganda che istiga a radicalizzare un conflitto tra l’etnia tutsi e altre etnie. Strumentalizzazione che facilita il coinvolgimento delle masse, alle quali si indica ogni persona di una data etnia come il nemico da abbattere, per il solo fatto di appartenere a questa etnia, in qualsiasi condizione e con ogni mezzo perché responsabile di tutti i mali presenti e futuri. Se quanto accaduto 31 anni fa non viene conosciuto e riconosciuto, se i tutsi non ricordano quanto da essi subìto e non rifiutano l’idea stessa che si possa usare l’etnia per giustificare massacri e crimini atroci, tutto può ripetersi. Quanto accaduto in passato non va accantonato. Gli insegnamenti ci sono e vanno messi a frutto».
Alcune realtà sembrano lontane anni luce da noi, ma nel mondo globale molte distanze si azzerano. «Occorre – conclude Silvana Arbia - non rimanere indifferenti guardando la televisione e pensando che si tratta di conflitti tribali tra comunità lontane. Tutti possiamo agire con la comunicazione, la memoria e la deterrenza, derivante dalla piena ed effettiva operatività della giurisdizione penale internazionale da sostenere e promuovere, essendo anche attrezzata per proteggere le vittime, ed assicurare loro riparazione».