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Stamattina mi son svegliato e ho visto il profumiere aperto. Non era un invasore molesto, solo una figura marginale della mia quotidianità, che è rimasta in piedi, come la parte di un palazzo dopo un bombardamento. Sono stato felice per tre minuti di comprare la mia schiuma da barba ( finita proprio poche ora dopo l’ultimo decreto) senza affrontare lunghe file in supermercato. Poi, appena uscito, ho invidiato quell’uomo, ancora perfettamente al suo posto in mezzo a saracinesche sbarrate. Utile , abile e arruolato alla guerra contro il nemico invisibile.
Io invece mi aggiro tra fascicoli accatastati, pagine di agende annullate, telefono che squilla solo per annunciare o prender nota di rinvii. Io, l’avvocato cassazionista con i miei cordoni dorati, finito nelle retrovie. Il marito dell’amica di mia moglie invece, lui sì che è un uomo vero: da camionista è ancora sulle strade a rifornire la prima linea.
Ma non era così importante quel contratto ? Ma quella lite tra vicini non era così insopportabile ? E anche quel processo per droga non toglieva il sonno? Le cose assumono una proporzione diversa ; si allontanano come quando l’aereo decolla e le fa sembrare piccole prima, insignificanti dopo.
Dettagli trascurabili di un panorama.
Quando vado in vacanza mi sento realmente fuori dal mio lavoro quando dal finestrino vedo quest’immagine e penso che da quel momento potrò concentrarmi su me stesso e i miei affetti trascurati.
Ora l’aereo è partito senza di me e sono io quel punto minuscolo, ma l’effetto è lo stesso : devo pensare a me stesso, senza lo stress delle udienze e degli atti.
Non posso aiutarmi con balconi affacciati su distese salate o montagne innevate e neppure visitare musei , monumenti e chiese della mia città, come in una celebre canzone di Lucio Battisti. Potrei ricorrere alla realtà virtuale, ma non ho grande passione per l’informatica e non sono un guardone telematico : la bellezza delle città sta nei suoi odori e nella sua atmosfera , come in ogni donna.
Così non mi resta che l’introspezione che mi ha dato una prima consapevolezza: quanto sia importante e decisivo l’essere avvocato nella mia vita. Vivendo e lavorando in una città dove non sono cresciuto, le persone che incontravo, anche al bar sotto casa o per strada non mi salutavano con il mio nome di battesimo, ma con il mio titolo professionale : “Buongiorno, avvocato”, “Arrivederci avvocato”.
Oramai mi ero talmente assuefatto a esser chiamato così che quando i colleghi mi chiamavano Renato avevo l’intima convinzione che detenessero un privilegio.
Ora invece sono tornato Renato. Come Don Chisciotte alla fine del romanzo.
La mia toga appesa all’attaccapanni, il mio tono di voce abituato a roboare ( come un trombone, insinuano i colleghi più intimi e irriverenti) in aula , si deve attenere a timbri quotidiani e domestici. Per dire “Esco a compare lo zucchero” in effetti – ha ragione mia moglie – non serve prosopopea, né tono enfatico. Comincio a pensare di aver fatto per una vita una ininterrotta arringa a me stesso, chiedendo alla mia vita di assolvermi e di pagarmi anche le spese.
Ho rinunciato a recite di Natale e funerali per essere in udienza . Perché mi faceva comodo, dice il mio grillo parlante domestico in persona di mia moglie. Perché faceva comodo pure a te, visto che portavo soldi a casa, ribatto io , schiacciando la critica con un’affermazione secca come una martellata.
Però è vero : molti doveri di padre li ho elusi gaiamente andando in tribunale a divertirmi e guadagnarmi da vivere. Ho anche esorcizzato funerali dolorosi con l’ascolto di una sentenza favorevole. Niente di più gratificante pensare che mentre il tuo caro familiare, un pezzo della tua vita scende sottoterra, tu vinci un processo. Un pegno di immortalità.
Senza essere volgare, Diderot ha scritto che i suoi pensieri gli davano un piacere talmente forte, da essere per lui le sue donnine allegre ( ma il suo francesismo è molto più esplicito). Per me vale lo stesso con le mie cause.
Il palazzo di giustizia è la mia casa di piacere.
Non è vilipendio, è solo una malattia.