Dal bigotto e soporifero Mike Pence, all’eroe della working class bianca dei monti Appalachi, lo scrittore e oggi militante repubblicano James David Vance. Scegliendo il 39enne senatore dell’Ohio come candidato vicepresidente Donald Trump compie un’ulteriore rivoluzione nel partito che da quasi un decennio sta plasmando a sua immagine e somiglianza, stavolta lanciando una bordata al notabilato del Gop, alla vecchia classe dirigente con cui il tycoon era venuto a patti.

Sospinto dal “miracolo” di Butter, il proiettile schivato per un millimetro che avrebbe potuto trasformarlo in un martire e invece lo ha restituito all’America nel format del guerriero caravaggesco, acclamato dalla sua base come una divinità pagana, The Donald è il padrone assoluto della festa. E l’ultimo rettilineo della campagna elettorale lo vuole affrontare come sa fare lui, nel modo più “trumpiano” possibile. Testosterone, capacità di reazione, forza di volontà, un energy drink da somministrare ai seguaci per gasarli e ritornare a Washington in marcia trionfale. E chi meglio di J.D.Vance può interpretare il ruolo di giovane cavaliere che marcia al fianco del grande leader?

Non si tratta di una candidatura di compromesso, ma di una scelta ideologica forte che indica agli elettori repubblicani chi sarà l’erede di Donald Trump nel prossimo futuro. Conservatore ma non bacchettone, isolazionista in politica estera, nemico della cultura woke e delle «élite» di Washington, afferma di voler alzare i salari dei lavoratori americani, penalizzati dalla manodopera a basso costo fornita dai migranti. Un uomo di destra, insomma, ma pieno di complessità, che tra gli amici ha anche intellettuali dem con cui ama discutere e litigare.

Come al solito, il primo a non capire nulla di quanto sta accadendo è il presidente Joe Biden che ha commentato con poca inventiva la scelta del vice-Trump: «Vance? È solamente un clone di Donald Trump». E dire che il suo romanzo capolavoro del 2016, Hillbilly Elegy (Elegia americana), era adorato dai progressisti, quelli delle grandi città, abbonati al New York Times e alle riviste letterarie, che in quello squarcio impietoso sul proletariato bianco della rust belt vedevano in filigrana l’ascesa di Donald Trump e del trumpismo trionfante.

Come se Vance in qualche modo fosse “uno di loro”, un eroico infiltrato nel cuore nero dell’America, miserrimo e degradato. Ma era solo un transfert, sociologia spocchiosa e militante. Hillbilly Elegy è un romanzo potente, che parla di disuguaglianza sociale, che fa a pezzi il sogno americano, la filastrocca ipocrita del paese delle opportunità. E che punta il dito proprio contro di loro, i diplomati wasp delle “metropoli costiere”, la classe dirigente che muove i fili del l’economia e della cultura, la sinistra in senso lato, che ha dimenticato le classi popolari colpite dalla crisi economica per dedicarsi a spassosi giochini linguistici e battaglie elitarie.

E che soprattutto ha spalancato autostrade a una destra tutta nuova di cui nessuno aveva previsto l’avvento. Vance ne è diventato l’interprete e il profeta, lui che viene da quel mondo slabbrato e senza futuro e che il futuro ha dovuto costruirselo letteralmente con le proprie mani, unico diplomato nella storia della sua famiglia.

Madre eroinomane che non avrebbe «mai voluto conoscere», padre alcolizzato e sempre fuori casa, è stato cresciuto da nonna Mamaw una donna arcigna e intelligentissima che aveva il carisma delle montagne e ha sempre creduto nel suo talento: «Una donna straordinaria amava Dio, la parola fuck e possedeva una ventina di pistole». Non si è appoggiato sui magrissimi sussidi federali per condurre la vita marginale di fratelli, cugini e amici che sparavano alle serpi nelle sterpaglie e nei passaggi a livello lungo binari che portano nowhere, non ha annegato l’esistenza nel whisky e nel Fentanil in una zona degli Stati Uniti che vanta il triste primato per il consumo e la dipendenza da psicofarmaci.

Una storia di riscatto, però non dolciastra, non hollywoodiana una storia radicalmente diversa perché l’indigeno stavolta non è stato assimilato e quando lo hanno iniziato a invitare nei salotti buoni e nelle kermesse per dirgli quanto fosse bravo, ha incassato i complimenti ma si è tenuto alla larga dall’album di famiglia liberal. Anche perché è sempre stato un conservatore convinto, diplomato in diritto nella prestigiosa università di Yale e servizio militare nel corpo dei marine, un esperienza che ricorda «con fierezza».

E quel mondo artificioso di intellettuali e influencer progressisti e globalizzati, non gli è piaciuto affatto: «Mi considero un emigrato culturale». Ha scritto per qualche tempo sulle colonne del New York Times ed stato editorialista sulla Cnn, ma poi si è allontanato. Dell’ex presidente Trump ammira «la schiettezza» e il tentativo di parlare alla classe operaia bianca dimenticata da tutti», si dice «disgustato» dall’elite «arrogante e inetta» che governa gli Stati Uniti.