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Spuntano le mini Farc. Dichiarano guerra all’accordo di pace tra guerriglia e governo firmato pomposamente nel 2016 all’Avana e riaprono il conflitto con lo Stato in Colombia. Con buona pace dell’ex presidente Manuel Santos che per quel difficilissimo accordo costato anni di lavoro diplomatico cominciato molti mandati prima della sua elezione, migliaia di morti e una montagna di soldi, s’è pure preso un Premio Nobel per la Pace.
Succede che un pugno di ex capi guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia – narcos ammantati nella retorica rivoluzionaria di quella che è stata per decenni la guerriglia più forte e meglio armata dell’America latina, ridotti negli ultimi dieci anni a scappare per la selva braccati dall’esercito, decimati, ma mai del tutto sconfitti - arresisi controvoglia all’idea di dar retta alla mediazione cubana e accettare l’accordo di pace col governo dell’allora presidente Santos, hanno deciso di stracciare l’accordo.
Dopo aver mollato le armi, accettato di costituirsi in partito politico e partecipare alle elezioni con tanto di candidato presidenziale le Farc - una parte di esse - ci ripensano. Uno dei loro capi più truci, Iván Márquez, probabilmente già scappato in territorio venezuelano oltre il confine con la Colombia, si dichiara dissidente e annuncia che la guerra contro lo Stato ricomincia.
E per dar prova che non mente dà dimostrazione d’esistere intervenendo con una serie di feroci attentati nella campagna per le amministrative nella Colombia sudoccidentale, zona un tempo controllata dalle Farc e da tre anni diventata terra di nessuno contesa tra vari gruppi di narcotrafficanti.
Non sono soltanto deliri di vecchi arnesi spazzati via dalla storia, sono atti concreti di guerra contro la popolazione civile: i massacri sono già cominciati.
Karina Garcia, 31 anni, candidata del partito liberale alla carica di sindaco nella città di Suarez, è stata uccisa la prima domenica di settembre insieme ad altre cinque persone.
L’auto blindata in cui viaggiava è stata crivellata di colpi con armi di grosso calibro e poi incendiata. Con lei sono morte sua madre, un candidato consigliere comunale del suo stesso partito e la scorta. Tutti uccisi, carbonizzati. Tranne un guardaspalle che si sarebbe salvato tuffandosi fuori dall’auto in corsa.
Non tutti i membri delle Farc dopo l’accordo di pace hanno consegnato le armi. Non tutti hanno accettato la smobilitazione. Essenzialmente perché sono soldati dei narcos, spesso affamati, da anni vivono scappando nella selva, obbediscono ed uccidono: sanno fare solo quello. Le Farc, già molto prima della smobilitazione, erano ormai quasi solo un esercito armato di narcotrafficanti, la cui base fa la fame e si arruola per una scodella di zuppa quotidiana. La maggior parte delle persone che componeva e compone ancora quell’esercito non ha capito nemmeno le parole usate nella trattativa politica dai loro comandanti all’Avana sotto la protezione del governo cubano.
Suarez, il luogo dell’ultima strage, è una zona indigena dentro il dipartimento di Cauca.
Per ragioni geografiche è un corridoio fondamentale per molti traffici. Non solo di droga, anche di armi e di minerali estratti da miniere illegali. Ma è soprattutto un luogo cruciale per la produzione della pasta base da cui si ricava cocaina. Prima della firma dell’accordo di pace lì avvenivano soprusi e violenze atroci, con un controllo del territorio quasi interamente in mano alle Farc. Ora continuano soprusi e violenze aggravate e moltiplicate dal fatto che il territorio non ha più un potere unico che lo controlla, per quanto illegale, ma è diventato oggetto di contesa tra almeno tre eserciti irregolari: l’Esercito di liberazione nazionale ( la seconda guerriglia colombiana) l’Esercito popolare di liberazione e vari gruppi sbandati, ma ugualmente feroci, delle ex Farc che si sono rifiutati di consegnare le armi. Tra loro quello più organizzato e meglio armato sarebbe la cosiddetta “colonna mobile Jaime Martínez” che raggruppa uomini di gruppi discioltisi, ma non estinti. Nomi che in Europa non dicono nulla, ma in Colombia fanno paura a tutti: la Miller Perdono, la Jacobo Arenas e il fronte 30 delle ex Farc.
Il governo colombiano, con una certezza di toni che denuncia chiaramente la necessità di fare propaganda poiché a pochi giorni dalla strage non può essere certo nulla di un massacro in cui ogni traccia di prova è finita carbonizzata insieme all’auto incendiata, indica il responsabile in un ex guerrigliero dissidente di medio livello gerarchico nella vecchia struttura della guerriglia. Si tratterebbe di Leder Johay Noscué, noto con il nome di battaglia Mayimbù. E’ la stessa persona indicata come responsabile di spargere terrore nelle comunità indigene.
Nella guerra per il controllo del territorio la capacità di incutere terrore nella popolazione locale è un fattore cruciale. I tre contendenti cercano, ciascuno per suo conto, di esercitare un controllo sociale, di imporre regole di comportamento, restrizioni alla libertà di movimento e una parvenza di amministrazione locale dell’economia e della giustizia. Lo fanno attraverso omicidi considerati esemplari, la affissione di manifesti, la distribuzione di fogli scritti. Lasciano spesso cartelli sui corpi delle persone che uccidono, per terrorizzare i locali e avvisarli su quale sarà la loro fine se rifiuteranno di accoglierli come nuovi padroni del territorio.
Per questo Karina Garcia aveva denunciato che il suo materiale di campagna elettorale era stato macchiato di vernice. Aveva capito che l’avrebbero uccisa e non le è bastato a salvarsi.