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L’immagine che più di tutte rimarrà negli annali non è certo lusinghiera: la provetta con le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein brandita all’Assemblea dell’Onu per giustificare l’invasione dell’Iraq. Un cucchiaino di “antrace”, più probabilmente di farina.
Sono passati quasi vent’anni da quella scena grottesca che Colin Powell fu costretto a recitare per amor di patria, per spirito di servizio, convinto in extremis dai diabolici consiglieri del presidente George W. Bush. La sera prima al termine di una furibonda litigata, violentando il suo carattere mite aveva sbattuto la porta,. si era dimesso. Poi, qualche ora dopo ha indossato di nuovo i panni del Segretario di Stato e ha interpretato la parte, da attore consumato. Quella macchia però non ha mai scalfito la sua tempra, la proverbiale capacità di incassare i colpi, di reagire con freddezza alle avversità, da leader tranquillo come è sempre stato.
Il più politico degli alti ufficiali americani del dopoguerra come ha dimostrato la successiva carriera, misurato nelle ambizioni e negli obiettivi da raggiungere, tanto da coniare una “dottrina militare” che porta il suo nome. La dottrina Powell, nata dai fallimenti dai conflitti in Corea e Vietnam prevede guerre limitate e chirurgiche, l’analisi costi- benefici di ogni intervento e soprattutto ritiene necessario il sostegno dell’opinione pubblica.
Quando da Capo di Stato maggiore guidò nel 1991 la prima guerra contro l’Iraq molti generali e agenti dei servizi criticarono il ritiro delle truppe americane con l’esercito di Saddam in ginocchio. La guerra era vinta ma i falchi insistevano per dare il colpo di grazia al raìs. Già, i falchi. La “colomba” Powell ha spesso avuto a che fare con personalità estreme, con progetti Figlio di genitori giamaicani immigrati negli Usa, Powell nasce nel Bronx di New York e la sua è una storia da cartolina, il classico “sogno americano” che prende corpo nell’ascesa irresistibile di un ragazzo nero di famiglia modesta che diventerà il più giovane generale della storia americana e poi il più giovane capo delle forze armate.
L’infanzia scivola tranquilla come quella di tanti coetanei, poi, finito il liceo si spalancano le porte dell’accademia militare, un ambiente in cui si trova perfettamente a suo agio, forse l’unico che permette a un figlio di immigrati può rappresentare una rapida emancipazione sociale. «Trovai un altruismo che mi ricordava la mia famiglia, razza, colore e provenienza sociale non contavano nulla». artecipa alla guerra in Vietnam con il grado di tenente dove sopravvive all’abbattimento del suo elicottero ma viene coinvolto nelle indagini sul massacro di My Lai che costò la vita a 347 civili vietnamiti, un’altra pagina buia della sua carriera.
Nel ’ 79 è funzionario del Pentagono, nominato dal presidente democratico Jimmy Carter, Powell non è certo un uomo di sinistra, si definisce un centrista, ha votato per Kennedy e Johnson, ma anche per Eisenhower e come assistente dei Frank Carlucci, sottosegretario alla Difesa di Nixon. Con l’irruzione del ciclonico Ronald Reagan sulla scena politica la sua orbita si sposta però verso il partito repubblicano dove rimarrà per oltre un trentennio. Prima Consigliere per la sicurezza nazionale, poi capo di Stato maggiore. Nel ’ 93 si ritira ancora giovane dalla vita militare. Durante l’epoca Clinton rimane nell’ombra( nel 96 rifiuta l’offerta di candidato vicepresidente di Bob Dole) ma il suo nome circola in continuazione tra i cenacoli del Gop, in molti vedono in lui il primo possibile presidente nero degli Stati Uniti. L’occasione si presenta nel 2001, quando George. W. Bush lo nomina Segretario di Stato. Sono gli anni roventi del dopo 11 settembre, delle guerre in Afghanistan e Iraq, di Guantanamo e della lotta al terrorismo, una convivenza complessa, a volte turbolenta con i solforosi intellettuali neo- con che imperversano a Washington, con i super- falchi Cheney e Rumsfeld, con il fronte pacifista incarnato da Francia e Germania. Powell media e combatte, ma soprattutto ci mette sempre la faccia. Come nella pietosa scena della provetta «una cosa di cui non vado fiero», ha ammesso qualche anno dopo quando era già rimasto folgorato dalla stella di Barack Obama.
Un trasformista o un uomo libero? Probabilmente entrambe le cose, sempre in bilico tra convinzioni e realpolitik, tra passione e convenienza personale. Un pezzo di storia politica americana con la s maiuscola incompatibile con la traiettoria politica di Donald Trump, il miliardario che ha distrutto il Grand old party e che Colin Powell disprezza dal profondo del suo cuore repubblicano.