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Andrea Mascherin, presidente dimissionario del Cnf
Il lodo ha un padre. Si chiama Conte. Di nome però Federico, non Giuseppe. Il secondo, il premier, ne è al massimo il genitore adottivo, nel senso che ha tradotto la rettifica della prescrizione di Bonafede in un proprio strumento di mediazione politica. Gli esiti nella maggioranza sono noti: via libera dal Consiglio dei ministri di giovedì sera, insieme con il ddl penale, ma non da Italia viva, che non ha neppure presentato le proprie due ministre ala riunione.
Il punto è che nel day after, come sempre straniante per i vertici sulla giustizia, nasce un caso paradossale sulla paternità dell’accordo. Perché Conte, Federico, deputato di Leu, l’unico genitore certo, parla del «concorso determinante» da parte di «tre attori indipendenti: giuristi, magistratura e avvocatura». Sono però proprio il Cnf, massima istituzione forense, e l’Unione Camere penali, a disconoscere la genesi del lodo. «Non sappiamo a quale avvocatura faccia riferimento l’onorevole Federico Conte quando parla del lodo sulla prescrizione», scandisce il presidente del Cnf Andrea Mascherin.
E il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza è altrettanto sorpreso: «Siamo l’Unione delle Camere penali italiane e non abbiamo nessuna pretesa di rappresentare, sia ben chiaro, l’intera avvocatura italiana, ma siamo semplicemente curiosi: quale sarebbe l’avvocatura che avrebbe firmato questo inguardabile mostriciattolo giuridico senza capo né coda? Restiamo in attesa fiduciosa di una risposta».
L’equivoco non è da poco. Non solo perché è evidente che Conte non ha concertato la sua proposta con gli avvocati. Ma anche perché, chiamata in causa, adesso l’avvocatura vorrebbe farsi sentire davvero. «È a questo punto necessario e urgente che sia convocato al più presto il tavolo tecnico con avvocati e magistrati», è infatti la seconda puntualizzazione di Mascherin.
«L’equivoco esiste», spiega l’onorevole Federico Conte al Dubbio. «Non ho mai inteso vantare una concertazione con il Cnf e con l’Unione Camere penali, ma semplicemente riferirmi alle audizioni parlamentari svolte negli ultimi mesi, in particolare nella commissione Giustizia della Camera che si è trovata a esaminare la legge Costa, dalle quali appunto sono emerse le posizioni di tanti giuristi, della magistratura e anche dell’avvocatura. Naturalmente tutte le rappresentanze forensi», aggiunge il deputato di Leu, «hanno sempre fermamente opposto la loro contrarietà al blocco della prescrizione. Ma proprio le loro osservazioni, messe a raffronto con quelle raccolte da altri, per esempio dall’Anm, hanno costituito gli elementi da cui ho tratto una proposta di sintesi. Di sintesi politica, naturalmente».
Chiarito. Conte, sempre Federico, è a sua volta un avvocato penalista. E non può ignorare l’enorme problema lasciato irrisolto dalla sua mediazione: la indeterminatezza, e quindi la potenziale eternità, della durata dell’appello.
A questo si aggiunga il meccanismo che, se prevede il blocco illimitato della prescrizione dopo la condanna (anche dopo la condanna in appello), agisce anche sulle assoluzioni: dopo il primo grado prevede una sospensione di 18 mesi qualora il reato dal quale l’imputato è stato appena assolto si prescriva nel giro di un anno (o in meno tempo), per lasciare al pm la possibilità di impugnare il proscioglimento; dopo l’assoluzione in appello, pure si introduce una sospensione, stavolta di 6 mesi, sempre nel caso in cui il reato appena dichiarato insussistente in secondo grado vada in prescrizione entro l’anno successivo, e sempre per lasciare all’accusa un margine per tentare la rivincita (stavolta in Cassazione).
«Riguardo all’indeterminatezza dell’appello dopo la condanna in primo grado», dice ancora Federico Conte, «vorrei ricordare che al tavolo di maggioranza la mia prima ipotesi è stata ben diversa: la prescrizione processuale, cioè un limite di durata massima per tutte le fasi del giudizio. Bonafede ha detto di no non solo a me ma anche al Pd. Ora mi chiedo», conclude il deputato di Liberi e Uguali, «se davvero ci sarà un tavolo con avvocati e magistrati, come chiede il presidente Mascherin, si può dire o no che in virtù del mio lodo si parte da un punto ben diverso rispetto alla norma Bonafede così come è stata scritta a fine 2018 e come è tuttora in vigore nel nostro ordinamento?» .
Certo resta un problema gigantesco, anzi ne restano parecchi. Ma il più grande è che l’avvocatura, tutta, dissente dalla soluzione trovata sulla prescrizione in Consiglio dei ministri e inserita nel ddl sul processo penale. Non solo, Perché il dissenso è sull’intera riforma, non sollo sulla prescrizione e sulla sua parziale riscrittura. Caiazza parla di un ddl «cinico e pericoloso». Di cui intanto non esiste ancora una versione definitiva.
Anche perché giovedì sera si è entrati a Palazzo Chigi con una riforma penale priva del lodo Conte e si è deciso di coniugare i due elementi solo in corso d’opera. Col risultato che nelle ore seguenti, cioè ieri, i tecnici di via Arenula e della presidenza del Consiglio hanno continuato a lavorare, sia per coordinare i due testi, sia per altre limature relative alle norme sul processo.
E qui si arriva all’altro nodo, intricatissimo, della faccenda: il ddl nel suo insieme. Dal fronte dell’avvocatura è l’Organismo congressuale forense a parlare di «riforma agrodolce, largamente insufficiente nei contenuti». Una valutazione negativa che pure riconosce al ministro una qualche «apertura al dialogo e al confronto». L’Ocf prende sì atto «con soddisfazione» del fatto che propri suggerimenti «abbiano trovato riscontro». Ma, si legge nella nota dell’Organismo, «la soddisfazione viene fortemente ridimensionata nel constatare che per molti altri passaggi determinanti le preoccupazioni espresse dall’avvocatura non siano state ascoltate».
Ci si riferisce, per esempio, alle «notifiche all’imputato, che responsabilizzano l'avvocatura senza distinzione tra nomine fiduciarie e nomine d’ufficio, con la necessità di un ulteriore specifico mandato per poter proporre appello dopo la condanna in primo grado».
Il coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico punta il dito anche contro «l'impossibilità per il giudice di applicare l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale, un proposta dell’Organismo che pure aveva trovato unanime consenso nell'Anm e nell'Unione Camere penali. Avrebbe diminuito sensibilmente i procedimenti davanti al Tribunale di Sorveglianza ed eliminato ad esempio le impugnazioni delle sentenze di patteggiamento o di concordato».
«Insomma, ci sono gli studenti bravi che non si applicano», conclude Malinconico, «in questo caso non vorremo trovarci di fronte all'ipotesi inversa: l'arte di complicare le cose semplici e di spiegare le ricette al cuoco. Se a via Arenula ascoltassero i tecnici, molti problemi sarebbero risolti». L'auspicio dell’Ocf è che «sul testo si avvii prontamente una nuova stagione di consultazioni, per eliminare le criticità e rendere effettivamente utile la riforma». Un punto dal quale l’intera avvocatura vorrebbe partire, per andare ben oltre il risultato attuale.