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Eravamo tutti Charlie perché l’ironia e la satira sono il sale della democrazia, perché si può ridere di tutto, anche delle tragedie, figuriamoci delle religioni, ed eravamo andati in piazza a milioni, commossi e indignati dalla più assurda delle stragi. Come si può morire per una vignetta? Sono passati dieci anni ma sembra ieri.
Il 7 gennaio 2015 alle 11.30 del mattino i fratelli Chérif e Saïd Kouachi, membri dalla branca yemenita di al Qaeda, penetrano nella redazione di Charlie Hebdo in pieno centro di Parigi. Indossano due passamontagna e sono armati di kalashnikov; sulle scale del palazzo incrociano la disegnatrice Coco. Fucile alla tempia, la costringono a risalire la rampa e a digitare il codice di sicurezza che apre la porta blindata. Al grido ormai rituale di “Allahu akbar” esplodono centinaia di colpi, stanza per stanza, tutto dura pochi minuti, la carneficina è necessaria per “vendicare il profeta” urlano i due invasati.
Le vittime sono 12: i cinque disegnatori Cabu, Charb, Honoré, Tignous e Wolinski, la piscanalista e giornalista Elsa Cayat, l’economista Bernard Maris, il correttore di bozze Mustapha Ourrad, l’agente di polizia Franck Brinsolaro incaricato della protezione di Charb (direttore delle pubblicazioni), e il giornalista Michel Renaud, invitato fatalmente quel giorno a partecipare alla riunione di redazione. Perdono la vita anche il responsabile delle pulizie dell’immobile Frédéric Boisseau e il poliziotto Ahmed Merabet, falciati all’esterno dei locali.
La fuga dei fratelli Kouachi si interrompe due giorni dopo in una tipografia a sessanta chilometri da Parigi dove vengono individuati e abbattuti in una sparatoria con le forze dell’antiterrorismo. La Francia era stata colpita al cuore, nel suo bene primordiale, la libertà di pensiero, primo paese al mondo ad abolire nel 1791 il reato di blasfemia.
I disegnatori di Charlie Hebdo avevano ricevuto più volte minacce di morte, alcuni di loro vivevano sotto scorta, sapevano di essere un obiettivo del fondamentalismo jihadista che non gli perdonava le vignette “empie” su Maometto, in particolare una copertina in cui il profeta appare con una bomba sul turbante esclamando: «È dura essere amati dagli stronzi».
Fomentati dai gruppi islamisti radicali, migliaia di persone protestano dal nord africa al Medio Oriente davanti le ambasciate francesi in un clima di alta tensione. Dieci anni prima era toccato al giornale danese Jyllands-Posten che aveva pubblicato alcune caricature di Maometto, innescando una crisi diplomatica con diversi Paesi musulmani. Il quotidiano alla fine è costretto all’abiura e si scusa pubblicamente di aver offeso la sensibilità religiosa dei fedeli.
Charlie invece no, non si è mai scusato per i suoi disegni, rivendicando il diritto di prendere in giro le religioni, tutte le religioni. Anche il tributo di sangue pagato dalla redazione non ne ha piegato lo spirito ateo e anticlericale: oggi il giornale esce in edicola con un numero speciale per ricordare la strage, un numero dedicato ancora una volta al fanatismo religioso.
Ma intorno a loro il clima è cambiato e del fervore civile di dieci anni fa rimane soltanto un riflesso sbiadito. Non si è spento invece il delirio jihadista come dimostra l’uccisione di Samuel Paty, il professore di storia decapitato da un giovane ceceno nel 2020 proprio per aver mostrato ai suoi allievi le vignette incriminate in una discussione in classe sulla libertà di satira.
E l’intolleranza è purtroppo cresciuta anche nel cosiddetto mondo libero come dimostrano le polemiche di questa estate sulla cerimonia dei Giochi olimpici parigini che ha messo in scena una rappresentazione queer dell’ultima cena, scatenando le reazioni insensate e violente di milioni di cristiani.