«Un evento del genere è un contributo, propone una riflessione importante su un tema di grande rilievo. Ma è anche un’occasione per restituire alla consapevolezza diffusa il ruolo sociale e costituzionale dell’avvocato, altrimenti scacchiato da semplificazioni negative». Il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli parla dell’incontro tra le avvocature dei G7 tenuto giovedì a Roma, e condivide due aspetti decisivi della riflessione che vi si è sviluppata. Da una parte la funzione di vigilanza critica che gli avvocati possono svolgere nella società. Dall’altra «la grande delicatezza dei problemi che l’uso della rete pone, e che comporta straordinarie utilità ma altrettanto notevoli rischi. Soprattutto rispetto al diffondersi dell’odio sotto forma di linciaggio sottile, di uso violento della parola che può avere effetti dirompenti per la convivenza civile, una bomba atomica, potremmo dire».

Presidente Mirabelli, in Italia il ruolo sociale e la rilevanza costituzionale dell’avvocato sono sottovalutati?

In parte è così. È vero che in alcune Costituzioni il richiamo a tale ruolo e a tale rilevanza è ancora più esplicito di quanto sia nella nostra Carta. Ma non è questo il punto. Troppo facilmente si cede a una banalizzazione, quella di considerare il difensore come il professionista che detiene l’armamentario dell’astuzia. Si sottovaluta, più di tutto, che non c’è giurisdizione senza gli avvocati. E che è all’avvocato che il cittadino si rivolge per l’affermazione di un diritto: affermare un diritto vuol dire affermare la legalità. Non è tutto.

Continui.

È attraverso l’azione del difensore che si forma la giurisprudenza. Basti ricordare che le decisioni con cui la Cassazione interpreta il diritto oggettivo vengono stimolate dagli avvocati. Ecco: l’avvocato è il primo interprete, l’orientamento indicato dalla Cassazione nasce da quanto l’avvocato promuove. Quante volte è il difensore con la propria azione a sollevare mutamenti di giurisprudenza? In tal modo la classe forense partecipa alla costruzione dell’ordinamento intesa come processo complessivo.

Non si tratta dunque solo di mediare tra il cittadino e i suoi diritti.

Non solo, appunto, ed è così proprio in virtù di quel contributo appena descritto: non viene tutelato solo il singolo, l’avvocatura finisce per tutelare lo stesso ordinamento.

Altrimenti la connotazione di quel ruolo sarebbe solo privatistica.

E invece attraverso le eccezioni di legittimità l’avvocato determina addirittura cambiamenti dell’ordinamento sul piano costituzionale. Credo sia importante considerare con attenzione questi aspetti anche alla luce delle critiche che negli ultimi tempi si sono spesso concentrate sulla giustizia amministrativa. Ecco, oltre che nel campo penale e civile, pensiamo al valore che la difesa assume quando assicura la tutela dei cittadini anche rispetto all’amministrazione. Aggiungo ancora: la capacità di trovare soluzioni tecnico giuridiche non può essere svilita come semplice attitudine all’esercizio dell’astuzia anche perché il professionista del diritto fluidifica i rapporti economico– sociali, con la propria assistenza consente di superare problemi e disegnare per esempio assetti societari.

Bene, presidente: ma esiste un nesso tra tale rilevanza sociale e la specifica soggettività dell’avvocatura nel dibattito pubblico?

Vede, la funzione pubblica dell’avvocatura si realizza anche attraverso l’esercizio della difesa d’ufficio, assicurata ai non abbienti: con il patrocinio, come viene definito in questi casi, ci si fa carico della tutela dei più deboli. Questa è una dimensione individuale. C’è quindi una dimensione collettiva, in cui l’avvocatura può manifestare la propria opinione, anche tecnica, così come a volte la manifesta la magistratura. L’assimilazione dei due soggetti della giurisdizione si lega anche alla loro cooperazione: ‘ Giudice e avvocato, una toga sola’ è espressione che sintetizza perfettamente tale principio. Naturalmente, il rilievo di cui parliamo impone che l’avvocatura sia all’altezza del proprio ruolo.

E una simile conferma viene assicurata anche da un evento come l’incontro delle avvocature del G7?

Intanto direi che il confronto con l’avvocatura internazionale ci rimanda a un tema di grande importanza che è l’individuazione di uno specifico ruolo della classe forense in ambito europeo, innanzitutto. Inoltre, una riflessione come quella sviluppata nell’ultimo incontro risolleva dinanzi alla pubblica opinione l’effettiva rilevanza sociale dell’avvocatura a volte dimenticata.

Tra i rischi che l’odio in rete può determinare e che sono stati segnalati nel corso dell’evento, c’è un possibile uso manipolativo dell’odio come forma di controllo delle coscienze e indebolimento delle stesse istituzioni democratiche. Canzio ha citato la liturgia dell’odio immaginata da Orwell in 1984.

La rete è una grande opportunità, innanzitutto. Consente, solo per fare un esempio, la circolazione di informazioni anche quando le fonti ufficiali non le forniscono. Ma ha un indiscutibile rovescio in termini di rischi.

Fino a quello della disgregazione della democrazia?

Le manipolazioni più pericolose non si realizzano con l’insulto: vengono piuttosto da forme di linciaggio sottile in cui la parola ha un portato di violenza, con cui si costruisce l’odio, la non verità. Si rischia un effetto pesantissimo, una bomba atomica. In questo meccanismo naturalmente non tutto è nuovo.

A cosa si riferisce?

Al fatto che la demolizione, il linciaggio pubblico e la manipolazione possono essere attuati anche attraverso i media tradizionali. Ma qui gli effetti e gli impulsi possono essere di dimensioni politicamente maggiori. Anche perché con la rete si può offrire un’illusione democratica che poi viene rovesciata, se per esempio gli interrogativi vengono rivolti in modo da contenere già la risposta. L’ultima campagna presidenziale americana ha mostrato bene come le false notizie diffuse in rete, altro aspetto della questione, possano influire sulle opinioni.

Come si superano questi rischi?

I filtri alla libera espressione difficilmente possono essere efficaci. Occorre valorizzare soprattutto l’elemento educativo.

È il cuore delle conclusioni raggiunte dalle avvocature dei sette Paesi.

È decisiva la conoscenza critica, che deve essere un atteggiamento costante e che si nutre di un ingrediente decisivo: il dialogo. L’assertività non contribuisce ad affermare la verità, solo il confronto può aiutare a cercarla.

La pedagogia deve consistere in un metodo, dunque: in fondo basterebbe tornare ai filosofi della Grecia classica.

Si deve aiutare a crescere proprio in quella direzione. E certo, la sfida è impegnativa, ma la si può vincere solo se non si depongono le armi della cultura.