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Policemen guard a reception center for migrants, at the port of Shenjin, northwestern Albania, on Wednesday, June 5, 2024. Italian Premier Giorgia Meloni is traveling to Albania Wednesday to thank the country for its willingness to host thousands of asylum seekers and to tour the sites of two migrant detention centers. (AP Photo/Vlasov Sulaj)
Il centro di detenzione per migranti italiano, esternalizzato in Albania, avrebbe dovuto essere attivato lo scorso 20 maggio ma, a causa di continui rinvii, l'apertura è stata posticipata a giugno, luglio, agosto e ora è prevista per metà ottobre. I lavori al centro di Gjader – una spianata recintata da un muro e dotata di container sovrapposti – sono ancora in corso, mentre quello a Shengjin sarebbe pronto. Nonostante ciò, il progetto, dal costo di oltre 800 milioni di euro, incontra non solo ostacoli logistici, ma soprattutto giuridici.
Tra profili di illegittimità e irragionevolezza, e a fronte dei continui ritardi nei lavori, in molti dubitano dell'effettiva attuazione del Protocollo Italia-Albania, firmato un anno fa. A sostegno di queste preoccupazioni, un sopralluogo giuridico condotto in Albania dall'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (Asgi) ha confermato la possibile illegittimità di una detenzione generalizzata dei migranti sul territorio albanese.
A Tirana, il principale tentativo di bloccare l'accordo è naufragato già a marzo, quando la Corte costituzionale albanese ne ha confermato la legittimità. A dicembre 2023, un gruppo di trenta parlamentari, supportato dall'Ombudsman, aveva infatti sospeso l'approvazione della legge di ratifica, sollevando dubbi sulla compatibilità del trattato con la Costituzione albanese. Le preoccupazioni principali riguardavano la possibile violazione dei diritti fondamentali e, soprattutto, la lesione dell'integrità territoriale dello Stato. Secondo gli oppositori, concedere a un Paese straniero, come l'Italia, la possibilità di esercitare giurisdizione su porzioni del territorio albanese avrebbe contravvenuto alla Costituzione, che richiede una procedura di approvazione speciale per questo tipo di decisioni.
La Corte ha respinto queste obiezioni, affermando che la giurisdizione albanese continuerà a valere nei centri, coesistendo con quella italiana in materia di asilo. Pertanto, il Protocollo non comporterebbe una cessione di territorio, né in senso materiale né in senso giuridico. Tuttavia, la Corte ha chiarito che lo Stato albanese rimarrà responsabile per il rispetto di tutte le norme superiori al Protocollo, come la Costituzione e la Carta dei Diritti dell'Uomo. Ciò significa che la giurisdizione italiana all'interno dei centri potrebbe subire delle limitazioni qualora fossero in gioco i diritti fondamentali delle persone. Questa questione potrebbe diventare cruciale in vista dell'apertura delle strutture.
I centri di accoglienza e identificazione di Shengjin e Gjadër
L'accordo tra Italia e Albania prevede che i migranti soccorsi in mare dalle autorità italiane possano essere trasferiti in Albania per l'espletamento delle procedure di accoglienza e identificazione. A tal fine, sono stati individuati due siti: il porto di Shengjin e un'area nel comune di Gjader. All'interno di questi centri, costruiti su territorio albanese, le autorità italiane saranno competenti per l'ordine e la sicurezza, mentre quelle albanesi si occuperanno della vigilanza perimetrale e dei trasferimenti tra i due siti. Shengjin, una rinomata località turistica con hotel di lusso e spiagge attrezzate, ospiterà un centro di prima accoglienza all'interno del porto. Qui i migranti saranno identificati, sottoposti a screening sanitario e avranno la possibilità di presentare domanda d'asilo.
Dopo il primo screening a Shengjin, i migranti dovrebbero essere trasferiti a Gjader, un piccolo paese nell'entroterra albanese, precedentemente sede di una base militare dismessa. Situato in una zona montuosa e scarsamente popolata, Gjader soffre di carenze infrastrutturali, come frequenti interruzioni dell'erogazione elettrica e l'assenza di un adeguato servizio di raccolta rifiuti. In quest'area sono in costruzione tre diversi centri di accoglienza per migranti: un centro di prima accoglienza da 880 posti per i richiedenti asilo, un centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) da 144 posti e un centro penitenziario da 20 posti destinato ai detenuti stranieri. Il centro di prima accoglienza, in particolare, è destinato ad ospitare i migranti sottoposti alla procedura di frontiera per un massimo di 28 giorni.
Ambiguità normative: tra proclami e illegittimità
Come ben sottolinea sempre l’Asgi attraverso il suo resoconto, le autorità competenti per l'esecuzione del Protocollo saranno quelle già operanti a Roma: Prefettura, Questura, Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria del Lazio. Le nuove disposizioni stabiliscono che le domande di protezione internazionale dovranno essere presentate alla Questura di Roma, dove un ufficio dedicato ne curerà l'istruttoria. Le decisioni verranno prese dalla Commissione territoriale della Capitale, presso la quale il ministero dell'Interno potrà istituire fino a cinque sezioni aggiuntive (art. 3 comma 1 L.14/2024). Tuttavia, tali uffici, già sovraccarichi e con problematiche organizzative – basti pensare alle lunghe code davanti alla Questura per richiedere asilo – si troveranno a gestire un ulteriore aumento di lavoro, senza risorse adeguate.
Il processo di richiesta di asilo, che comprende la presentazione della domanda in Questura, l'audizione davanti alla Commissione territoriale, la notifica dell’esito e l'eventuale ricorso in caso di diniego, dovrà essere completato in 28 giorni secondo la procedura di frontiera (art. 6-bis, comma 1, d.lgs 142/2015). In aggiunta, sia nei centri di Shengjin che di Gjadër verranno istituiti vari nuclei di supporto: uno per il coordinamento e raccordo sotto la Questura di Roma, uno di polizia giudiziaria, uno di polizia penitenziaria e un ufficio sanitario speciale per la sorveglianza sanitaria internazionale e la profilassi. Quest'ultimo dovrà operare in condizioni che rendono estremamente difficoltosa la gestione di emergenze sanitarie, dato l’assenza di strutture idonee e personale qualificato. Di fatto, gli ospedali albanesi saranno chiamati a gestire sia l'organizzazione logistica che il personale medico necessario.
Rimangono irrisolte molte questioni, in particolare quella riguardante i rimpatri forzati. Nonostante un rapporto dell'Ahc (Albanian Helsinki Committee) menzioni dieci accordi di riammissione con Paesi terzi, nessuno ha ancora risposto alle richieste di collaborazione. Anche la tutela del diritto di difesa risulta incerta: la possibilità di udienze e collegamenti da remoto non garantisce piena efficacia, soprattutto considerando la posizione isolata di Gjadër, difficilmente raggiungibile e priva di strutture di supporto adeguate. Il rimborso di 500 euro per gli avvocati, previsto in caso di malfunzionamento del collegamento, copre a malapena le spese del viaggio, che richiede un'ora d'auto dall’aeroporto di Tirana e ulteriori 30 minuti per raggiungere Gjadër.
Questi fattori sollevano dubbi sulla reale applicabilità del diritto di difesa, sancito dall'ordinamento italiano, e sulla possibilità di esercitare diritti fondamentali previsti dalle direttive europee, come il diritto di consultare un avvocato in tutte le fasi della procedura (Direttiva 2013/32/UE, art. 12 par. 1 c). Non è ancora chiaro, inoltre, come verrà garantita l'identificazione delle vulnerabilità dei migranti, né chi sarà responsabile dell’accertamento dell’età per i minori stranieri non accompagnati o del riconoscimento delle vittime di tortura e tratta. Le procedure di frontiera, che verranno applicate nei centri albanesi, non dovrebbero essere adottate per minori o richiedenti asilo con esigenze particolari, ma il bando di gara per la gestione dei centri prevede comunque la presenza di donne e minori, implicando una violazione già preannunciata. In sintesi, il Protocollo e centri annessi rischiano di risultare non solo inadeguati ma anche potenzialmente illegittimi, con scarse garanzie per i migranti vulnerabili, i cui diritti sembrano essere messi in secondo piano rispetto agli obiettivi politici.