Dopo lo stordimento (e la paura) delle prime settimane il mondo accademico americano esce dall’angolo e reagisce agli attacchi dell’amministrazione Trump. Oltre cento rettori di università e college statunitensi hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui denunciano «un’ingerenza governativa senza precedenti». Pubblicata il 22 aprile dall’Associazione Americana dei College e delle Università (AAC&U), la dichiarazione sottolinea le inaudite pressioni politiche esercitate dalla Casa Bianca per limitare l’autonomia dell’istruzione superiore negli Stati Uniti.

«Come leader accademici di college, università e società scientifiche americane, parliamo con una sola voce contro l'interferenza politica e il controllo governativo che minacciano l’indipendenza delle nostre istituzioni», tuona il documento. Tra i firmatari, spiccano i nomi di cinque atenei membri della prestigiosa Ivy League: Brown, Cornell, Princeton e Yale. E naturalmente Harvard, la più colpita dai tagli brutali e punitivi messi in atto dall’amministrazione.

Il giorno precedente alla pubblicazione del documento, l’Università di Harvard ha presentato una causa presso un tribunale federale di Boston contro l’amministrazione. Al centro del contenzioso: il congelamento di 2,2 miliardi di dollari di fondi federali, una ritorsione adottata dopo il rifiuto dell’università di chiudere i propri programmi dedicati alla diversità, equità e inclusione (DEI), come richiesto dalla Casa Bianca.

Nel ricorso, Harvard accusa il governo di «utilizzare la sospensione dei finanziamenti federali come strumento di pressione per ottenere il controllo sulle decisioni accademiche». Ma Trump non ha solamente chiuso i rubinetti, minacciando anche di revocare anche lo status di esenzione fiscale dell’università, accusandola apertamente di «diffondere odio e stupidità». L’inquilino della Casa Bianca accusa infatti le autorità accademiche di tollerare e di aver alimentato episodi di antisemitismo durante le proteste studentesche contro la guerra nella Striscia di Gaza.

I repubblicani hanno anche aperto un’inchiesta al Congresso sostenendo che l’università avrebbe violato le leggi federali sull’uguaglianza, mentre il governo vuole ampie limitazioni al diritto di manifestare all’interno dei campus. Il presidente Alan Garber ha respinto le accuse, definendole «un pretesto» per poter colpire la prestigiosa istituzione: «L’amministrazione sta cercando di usare la leva dei finanziamenti federali per esercitare un controllo politico e ideologico, si tratta di provvedimenti arbitrari e illegittimi che violano il primo emendamento».

Garber ha voluto rivolgersi a tutta la comunità universitaria degli Stati Uniti invitandola a scendere in campo: «Oggi difendiamo i valori che hanno reso l’università statunitense un faro nel mondo. Difendiamo l’idea che le nostre istituzioni possano adempiere ai propri doveri legali e svolgere il proprio ruolo fondamentale nella società senza indebite ingerenze dello Stato».

Come dimostra il documento firmato dai cento rettori la chiamata alle armi di Garber è diventata virale e gli atenei d’oltreoceano si preparano a una stagione di resistenza istituzionale. Non tutti però hanno avuto la forza di reagire; ad esempio la celebre Columbia University di New York ha accettato a malincuore di avviare riforme pretese dall’amministrazione repubblicana nel timore di perdere i 400 milioni di dollari di finanziamento.