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Forse i risultati non all’altezza del suo Manchester City stanno portando Pep Guardiola a sondare altri campi, non sportivi questa volta. O forse la frangia indipendentista catalana sta sfruttando un’icona come Guardiola per pubblicizzare ciò che ritiene un proprio diritto. Di fatto domenica scorsa, ai piedi del Montjuic, si è svolta una vera e propria parata con migliaia di persone (30mila secondo la polizia), centinaia di bandiere a strisce giallo granata e toni ben poco concilianti. “Siamo vittima di una persecuzione improponibile nel ventunesimo secolo” arringa la folla l’ex allenatore e giocatore del Barcellona accanto a politici di spicco del Governo Catalano.
“Desidera che Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di repubblica?”
È questa la domanda alla quale i catalani saranno chiamati a rispondere
l’1 ottobre, data che Carles Puigdemont, presidente della Generalitat (il parlamento catalano), ha stabilito per il referendum indipendentista. Nel suo discorso, Puigdemont ha tirato in ballo la “millenaria storia catalana” mescolando simbologie culturali a dichiarazioni durissime verso Rajoy, accusato di non voler aprire nessun tipo di dialogo con l’indipendentismo di parte della Catalogna.
Per ora solo parole, nessun decreto firmato nè richieste ufficiali agli organi spagnoli. Anche per questo il Governo di Madrid non si è pronunciato. Iñigo Méndez Vigo, portavoce del Ministero della Giustizia ha però avvisato:“Spero che non si firmi nessun decreto per promuovere questo referendum: sarebbe illegale”.
Ma la strategia di Puigdemont e Junqueras, vice presidente della Generalitat, prevede di approvare delle leggi in pieno agosto che permetterebbero, secondo indiscrezioni, si sostituire la legalità spagnola con una nuova legalità catalana. In virtù di queste norme, il referendum avrebbe una sua validità giuridica anche senza l’assenso di Madrid. Le leggi, chiaramente, vengono mantenute segrete per evitare che Rajoy possa organizzare una contromossa in tempo.
“Chiediamo aiuto alla comunità internazionale”, ha detto Guardiola in chiusura, leggendo il discorso in tre lingue, catalano, spagnolo e inglese. “Che ci aiuti nella difesa dei nostri diritti minacciati, come il diritto di espressione politica e il diritto al voto. È insostenibile, voteremo questo primo d’ottobre, e il Governo Catalano non sarà solo se manterrà le promesse di democrazia. Noi staremo dalla sua parte. Viva Catalogna!”.
Dal canto suo, l’Unione Europea ha fatto sapere una volta di più, tramite il portavoce Alexander Winterstein, di non volersi interessare di questioni che appartengono “all’ordine costituzionale interno di ogni paese membro”.
Cosa farà a questo punto Rajoy? Le strategie possibili sono molteplici, dal ricorso al Tribunale Costituzionale che già ha dichiarato illegale il referendum di due anni fa, sospendendo i polititci catalani a capo dell’organizzazione, al boicottaggio vero e proprio della parte logistica. Si parla di uno “strangolamento” economico organizzativo su tre fronti: tagliando i fondi destinati allo svolgimento delle elezioni, complicando il conteggio dei catalani all’estero e infine sanzionando le aziende fornitrici delle urne elettorali.
Indipendenza si o indipendenza no dunque? A marzo i sondaggi davano un vantaggio del no di dieci punti, ma l’estremismo di Rajoy e del suo partito hanno fatto convergere molti catalani verso il si.
“Una buona parte di noi votano indipendenza non per l’indipendenza in sè, ma per abbattere l’egemonia corrotta del Partito Popular e di Rajoy”, spiega una signora sorridente ai piedi del Montjuic, mentre sventola la sua bandiera a strisce. Due estremismi insomma, Puigdemont e Rajoy, che appaiono lontanissimi da ogni forma di dialogo.