PHOTO
separazione
di Giorgio Varano* Alcuni pubblici ministeri vivono la propria funzione con uno spirito religioso integralista e giustizialista. Poi, una volta andati in pensione, o vengono folgorati sulla via di Damasco, o si pongono come teologi dell’ortodossia integralista. Il Dottor Caselli, con la sua ridondante proposta di abolire l’appello nel penale, fornisce però spiegazioni più da seminarista in erba che da teologo. L’ex procuratore pone due domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito? È vero che anche in Italia nel 1989 è stato introdotto un sistema di tipo accusatorio? Teme, nel porre queste domande capziose, la reazione “cattiva degli avvocati”. Ma gli avvocati non sono usi a reagire in modo cattivo, anche perché dotati di tanta pazienza, così come di solito non pongono domande scivolose, senza avere la certezza delle risposte. Nel nostro Paese non c’è un sistema processuale accusatorio “puro”, ma un sistema a tendenza (omeopatica) accusatoria. Infatti, non ci sono le carriere dei giudici e dei pm separate, c’è un unico Csm per entrambi, ci sono tantissimi processi che si svolgono a dibattimento, tanti decisi da giudici “onorari”, ci sono tanti limiti ai riti alternativi, non ci sono le giurie solo popolari (le corti d’assise non lo sono), non ci sono le decadenze o le nullità dell’azione penale o l’inutilizzabilità assoluta delle prove raccolte in violazione della legge. Potremmo continuare scrivendo pagine e pagine sul punto. Ma è meglio partire della costituzionalizzazione dell’appello nella nostra Carta, nella speranza che possa terminare questa boutade dell’abolizione dell’appello. Nell’assemblea costituente si discusse a lungo sull’inserimento formale dell’appello penale quale diritto costituzionalmente garantito. Ci furono numerose discussioni, e si convenne di non formalizzare questo diritto solo per il penale, perché, per dirla con le parole di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, non conveniva ammettere espressamente l’appello per certe categorie di sentenze e provvedimenti, tacendo delle altre, ché sarebbero potute sembrare escluse dall’appello (seduta del 27 novembre 1947). Ma la migliore spiegazione la diede il costituente Francesco Dominedò: «La via ad una più alta tutela delle libertà del cittadino, attraverso la possibilità di configurare sempre il doppio grado di giurisdizione (la Cassazione non era e non è considerata un secondo grado) in quanto sempre operi l’istituto della motivazione, garanzia di giustizia e segno di civiltà». Ed è proprio questo il punto in cui è insito il diritto costituzionale all’appello: l’obbligo della motivazione, previsto da sempre dall’articolo 111 (“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”). Senza considerare poi le convenzioni e le carte internazionali, che riconoscono come inviolabile il diritto ad un nuovo esame di una sentenza di condanna o colpevolezza, da parte di un tribunale superiore. Chiedere l’abolizione dell’appello, per risolvere le lungaggini processuali, evidenzia una concezione di fondo della giustizia molto preoccupante: i giudici non possono sbagliare. Il vero problema non è solo che i giudici sbagliano (quasi la metà delle sentenze di primo grado vengono riformate in appello). Il problema è che non leggono perché hanno sbagliato. Infatti, non hanno l’obbligo di studiare le sentenze di appello avverso le loro pronunce. Ma è altrettanto preoccupante questo approccio fintamente efficientista, perché in realtà affronta in modo populista il problema delle lungaggini processuali, che i dati statistici dei vari Tribunali confermano essere causato da disorganizzazione e da mancanza di mezzi e personale. Proporre di abolire l’appello per ridurre i tempi processuali è un po’ come dire che per eliminare le attese negli ospedali dobbiamo abolire la possibilità di chiedere un secondo accesso agli stessi, anche se la prima volta ci hanno sbagliato la cura. È vero che viviamo tempi in cui si può abolire la povertà con un post sui social network, ma non è detto che dobbiamo considerare credibile chi ritiene di risolvere i problemi in questo modo. *responsabile Comunicazione Unione Camere Penali Italiane