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Caro Sandro. Caro, carissimo Pietro. Pietro… amico fraterno, dolce, leale. Ma anche, effetto di un impeto che trasfigurava fino alla cecità nel misurare fatti o persone, ecco il medesimo Pietro repentinamente diventare “insensibile, indifferente, sordo, meschino”. Scoppi d’ira e ritorni di fiamma in una storia d’amicizia infinita, ad alto tenore passionale, che pure seppe far grande il Socialismo italiano. E’ un carteggio al fulmicotone, quello tra Sandro Pertini e Pietro Nenni, riscoperto in un valigione dimenticato in soffitta dalla nipote di Nenni, Maria Vittoria, e proposto ora in uno delizioso volume da Antonio Tedesco e Alessandro Giacone ( Anima socialista, Biblioteca della Fondazione Nenni, Arcadia editore).
Storia di un’amicizia vera e focosa, dunque, tra il Ligure e il Romagnolo, che percorre il Novecento italiano in una narrazione pazzesca, perché intessuta di lacrime e sangue; lealtà, affetti, divergenze e liti furibonde, quasi sempre innescate dall’irruenza di Pertini e assorbite da un pazientissimo Nenni ( persino questa capacità d’incassatore gli verrà rinfacciata dal compagno). D’altronde il giovane avvocato savonese era diventato, già durante il Ventennio, “grazie alla sua indefessa condotta morale, all’atteggiamento assunto nei confronti dei tribunali fascisti”, una figura di culto tra gli antifascisti in esilio - lui che nel ’ 29 abbandonò l’esilio parigino cominciando la penosa trafila di arresti e confini. Al punto che la sua immagine era comparsa negli anni ‘ 30 su alcuni annulli filatelici, realizzati da Giustizia e Libertà, sulle pareti delle sedi antifasciste e sulla tessera del PSI del 1938 ( assieme a Morandi e Pesenti). Non a caso Nenni gli chiede per lettera una foto leggendaria, quella dell’avventurosa traversata Genova- Corsica che condusse Turati all’esilio in Francia, su un motoscafo con a bordo, oltre a Turati e Pertini, Carlo Rosselli e Ferruccio Parri. Più il comandante Lorenzo Da Bove, che Pertini stesso chiede a Nenni di “tagliare” dalla foto, quando venne pubblicata per la prima volta nel maggio del 1927 su «La Libertà», giornale della concentrazione antifascista stampato a Parigi, per evitargli ritorsioni. Ma questo epistolario che va avanti a singhiozzo, in relazione agli eventi che i due vivono nella fase resistenziale e quella del Dopoguerra fino agli albori degli Ottanta, è soprattutto storia intima di un Partito, quello Socialista, nel quale l’umanità dei protagonisti finiva sempre per determinare un quid imponderabile nelle traiettorie politiche. Riunioni e congressi autentici e combattuti, al confronto dei quali impallidiscono certe odierne kermesse, certi imbonitori da centro commerciale, gli spettacolini da cabaret per imbelli stomaci da gregge. Nel Psiup poi ricostituitosi in Psi, la passione era moneta corrente e le Idee genere di lusso, eppure sempre e comunque passate al personale setaccio. Mai Chiesa o leggi divine, bensì morale laica, democratica, relativista forse, fino a quell’insana, eppure umanissima proprio in quanto suicida, propensione alla scissione.
Tra Nenni e Pertini - autentici fari di un mondo che magari potesse oggi esser riproposto come “salvavita” di una nostra misera modernità – mai venne meno l’onestà delle posizioni, la lealtà di un affetto forgiato in anni “eroici” e dunque inossidabile al di là di ogni contrasto e durezza. E di una fede incrollabile nell’unità del partito, che li accomunava al di là di qualsiasi differenza di posizione, codificata da Sandro nel motto: “Meglio aver torto contro il Partito che avere ragione contro di esso” in una delle lettere a Nenni. Per restare assieme si potevano patire perciò anche affronti, mortificazioni e ostracismi, come il futuro presidente più amato dagli italiani spesso lamenterà. Drammatizzazioni di cui Pertini era maestro, spesso autoesiliandosi e pretendendo da Nenni la cancellazione da ogni incarico. Cosa che il leader romagnolo farà, il più delle volte non condividendo e cercando di far tornare Sandro alla ragione, come un prudente e accorto dirigente politico deve saper fare (“… Per il resto pazienza. I miei rapporti con Sandro sono stati purtroppo sempre inficiati da una serie di equivoci”). E quella de “il solito Sandro!” resterà un’imprecazione che per Nenni significava allo stesso tempo rassegnazione ma anche la persistenza di un fastidio che finiva per animare ancor di più Pertini. Come quando si ribellava alla descrizione di sé come di un “sentimentale” o, ancor di più, quando in toni straziati di sfogo, nell’ennesi- ma lunga filippica, rimprovera Nenni di non tenerlo abbastanza in considerazione: “… Ricordo sempre quel nostro legame politico ed anche affettivo. E mai collaborazione tra compagni fu più feconda e sincera di quella nostra. Poi accadde quello che è accaduto, tu sembrava ti studiassi ad allontanarmi da te, disistimando la mia sfera, diminuendomi dinanzi ai compagni. Sarebbe penoso ed anche per me umiliante se ti ricordassi alcuni fatti in proposito. ( Quando mai io ti chiesi poltrone nel periodo… aureo per il nostro Partito? E allora perché dire ai tuoi uomini del Viminale che “non sarei stato capace neppure per un… Sottosegretariato?!”).
Conosciutisi nel 1927 a Parigi, i due, assieme a Giuseppe Saragat ( «Come, non lo conoscete? E’ il migliore di tutti noi», si stupì Nenni nel presentarlo ai compagni), costituirono nel ‘ 44 il “Triumvirato” che rimise in piedi le sparute schiere socialiste ( Nenni rimase esterrefatto guardando i ruolini consegnatigli da Giuseppe Romita, che dal ’ 42 aveva ripreso i tesseramenti: «Ma siamo pochissimi! Il Partito non c’è, ci sono solo i comunisti» ). Quello del rapporto con i “cugini”, i comunisti, sarà allo stesso tempo cornice comune dell’autonomia socialista, per Pietro e per Sandro una religione laica, ma anche terreno di scontro in più d’un’occasione. “Vi invitiamo a non precipitare – scrive Sandro in due lettere quasi identiche -; se la fusione si fa al più presto, i comunisti, che hanno una organizzazione quasi perfetta, superiore alla nostra, potrebbero facilmente assorbirci. Nel nuovo partito finirebbero per predominare loro, la loro mentalità, il loro metodo. Addio, allora, la democrazia interna, l’autonomia da ogni interferenza di forze esterne!”.
L’entusiasta Pertini viene inviato a Milano a ricostituire il Partito durante gli eroici giorni della Liberazione, Nenni e Saragat tirano le fila da Roma, e lui li informa costantemente delle iniziative adottate (“Non vi stupisca che voglio essere presente tra i contadini con un giornale… so che i cugini stanno preparando qualcosa di simile. Dobbiamo quindi precederli. Non vi pare?... nel campo operaio teniamo testa ai cugini...”) e si getta anima e corpo in un partito che per lui “ormai è tutto, per questo non lo abbandonerò mai, ma anche per questo non permetterò che altri lo conduca alla rovina… Di una cosa potrete sempre star certi: che mai commetterò atti di debolezza, di slealtà, di secessione nel partito. Troppo mi stanno a cuore le sorti del nostro partito, perché possa sacrificarle ai miei improvvidi sdegni, alle impulsività del mio temperamento”.
Ma il temperamento più di una volta finisce per tradirlo, se non nell’azione politica, proprio nel rapporto con l’amatissimo Pietro, con il quale aveva più volte condiviso una stanza in clandestinità e per il quale, pur di non rivelare un suo indirizzo clandiestino, si fece torturare per due giorni e due notti dai nazisti. Da via Tasso, comando delle SS, finì a Regina Coeli dove, assieme a Saragat, venne condannato a morte “in via amministrativa”. Nenni intanto insisteva con Giuliano Vassalli per la liberazione di entrambi al più presto, perché quotidianamente rischiavano la fucilazione. Vassalli alla fine contattò un medico socialista che lavorava all’interno del carcere e riuscì a pianificare “un’evasione legalizzata”. Non senza che Nenni si raccomandasse con Vassalli di pensare subito «a Peppino, perché Peppino non è mai stato in carcere. Sandro il carcere lo conosce, c’è abituato, poi penseremo a lui». Episodio che non minò affatto i rapporti, nonostante Pertini ne chiedesse conto a Nenni in un incontro successivo, raccontato nel ’ 73 in un’intervista a Oriana Fallaci: «Pietro, cos’è questa storia del fate uscire Peppino, pensate a Peppino, tanto Sandro al carcere c’è abituato? E che? Siccome c’ero abituato, ci dovevo morire?».
Altri dolori, altre sofferenze cementavano il rapporto. Proprio il 25 aprile ‘ 45, giorno del suo celebre comizio a Milano, arrivò a Pertini la notizia che il fratello maggiore, Eugenio, era stato fucilato a Flossenburg in Germania e, quasi contemporaneamente, per Nenni era diventata certezza che la sua amatissima terzogenita, Vittoria, non sarebbe tornata da Auschwitz. “Ricordo come tu ti preoccupavi, quando abitavamo in periodo cospirativo la stessa camera, di questa tua figliola deportata; mi è facile quindi immaginare il tuo presente dolore. Ma le parole a nulla valgono dinanzi alla tua pena, anzi diventano fastidiose…”. Non mancano così, anche nei momenti più burrascosi delle comunicazioni tra i due, cenni all’indimenticata solidarietà, richiesta di notizie e saluti ai familiari.
Eppure alla fine, da questa vicenda umana, gloriosa e tormentata, vissuta con l’intensità della passione, si trarranno bilanci per nulla coerenti e, anzi, persino paradossali. Così ecco Pertini il mito, il martire designato di ogni intrigo di partito, assurgere alla statura di uomo di Stato, prima presidente della Camera e poi della Repubblica. Con Nenni che scriverà al presidente della Camera quanto la sua elezione sia “stata l’unica nota positiva in una vicenda del tutto negativa. Tu lo meritavi”. Mentre, dopo l’elezione di Sandro al Quirinale, unica volta nella quale i due forse potevano ritrovarsi in competizione diretta, annotare nei diari in sconsolata amarezza, che pure si felicita per la buona sorte dell’amico, come “del triumvirato, due sono arrivati al Quirinale e io no”. E che in ultima analisi la vita di Pertini nel partito, nonostante tutti gli sfoghi, le drammatizzazioni, gli scatti di sdegno, “visto che sei finito al Quirinale, non è poi andata così male. Io plebeo sono e plebeo resto”.