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«Mi sento davvero frustrata, me ne vado, la lettera di dimissioni vi arriverà in pochi giorni», ha detto prima di sbattere la porta della Commissione di inchiesta Onu sui crimini di guerra in Siria.
È fatta così Carla del Ponte, non per nulla la chiamano “il buldozer”, uno dei tanti nomignoli che l’accompagnano dai tempi in cui era un temuto giudice istruttore di Lugano; molti sono stati coniati dai suoi avversari, “Calamity Carla”, “Carla la peste”, “missile non teleguidato” e altri graziosi accostamenti. Eppure anche i nemici le riconoscono un carattere e una tempra fuori dal comune, almeno pari all’insofferenza che ha per i cavilli, le procedure burocratiche, le perdite di tempo, i giri di parole, la malafede. «La Commissione sulla Siria non ha alcun interesse a fare giustizia perché sono gli stessi membri del Consiglio di sicurezza a non volere giustizia».
Accuse pesanti ma in fondo logiche per una magistrata che ha sempre visto la realpolitik come un ostacolo alla limpidezza e alla neutralità del processo e in Siria la realpolitik la fa da padrona dall’inizio del conflitto nel 2011: «Tutti sono dalla parte del male, tutti hanno commesso crimini contro l’umanità, il regime di Assad ha usato armi chimiche, diversi oppositori hanno commesso atti terroristici, ma nessuno è mai stato portato davanti il Tribunale penale». E dire che dovrebbe esserci abituata a scornarsi con le diaboliche dinamiche della ragion di Stato.
Nella sua lunga carriera, che inizia con una laurea in giurisprudenza e l’apertura di uno studio legale nel 1975 ( entrerà in magistratura nel 1980), gli hanno rimproverato di essere troppo diretta, troppo impulsiva e poco riflessiva, di «sparare più veloce della sua ombra», mettendo a rischio il buon esito delle inchieste. Critiche che non sembrano scalfirla più di tanto: «Ho 70 anni, in questo mestiere devi avere il pelo sullo stomaco e non farti influenzare da nessuno». Di sicuro l’ex presidente del Tpi non si è mai fatta influenzare da nessuno, pagando in prima persona il suo scarso amore per la diplomazia e i compromessi, forse perché, come disse un giorno l’avvocato François Roux, capo della difesa nel Tribunale internazionale per il Libano, «Carla è sanguigna e ha l’indipendenza attaccata al corpo».
Si costruisce una piccola reputazione alla fine degli anni 80 quando guida un’inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco da parte di alcune banche del canton Ticino. La nota Giovanni Falcone che la chiama per collaborare nelle indagini sulla Pizza Connection ( l’inchiesta condotta dal Fbi sul traffico di droga tra l’Italia e gli Stati Uniti). Nel 1988 sfugge a un attentato mentre era a Palermo nella casa di vacanza del giudice siciliano, la polizia scoprì 50 chili di esplosivo nascosti nelle fondamenta. Dopo la morte di Falcone nel ‘ 92 continua imperterrita a indagare su Cosa Nostra e sfugge ad altri due attentati. I mafiosi la detestano e la chiamano «la puttana». Le assegnano una scorta e scopre la vita blindata di chi è sulla lista nera delle cosche.
Nel 1994 è promossa procuratore generale della Confederazione svizzera dove si occupa principalmente di criminalità economica, seguendo scrupolosamente il principio di Falcone che se vuoi individuare i capi delle organizzazioni criminali bisogna «seguire i soldi». Nel 1999 le Nazioni Unite la scelgono per presiedere il Tribunale internazionale sui crimini in Ruanda ( Tpir), un’esperienza amara per Del Ponte che non è riuscità a portare alla sbarra nessun responsabile politico del genocidio. Anzi le pressioni dell’allora presidente Paul Kagame, alleato di Washington e del tutto contrario a istituire il processo, nel 2003 spingono l’Onu a non rinnovarle il mandato: lascerà senza aver ottenuto alcun risultato. Ma, sempre dal ‘ 99, Del Ponte è procuratore del Tpi per i crimini di guerra in ex Yugoslavia ( Tpy); dopo la disfatta del Tpir e non guardando in faccia nessuno si concentra sulle accuse ai vecchi capi militari come i serbo bosniaci Ratko Mladic e Radislav Kristc o il croato Ante Gotovina, e ai vecchi dirigenti politici come l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, il serbo bosniaco Radovan Karazic per citare i no- mi più noti. Dopo otto anni di inchieste e processi il Tpiy ha accusato formalmente 161 persone di cui 92 condannate in via definitiva. L’imputato più illustre naturalmente fu Milosevic, che Del Ponte riuscì a far trasferire all’Aja nel 2001 ottenendo la condanna a 13 anni di prigione ( nel marzo 2006 Milosevic muore nella sua cella).
Poi, dal 2008, l’esilio dorato in Sudamerica dove è stata ambasciatrice svizzera a Buenos Aires, anni tranquilli di studi e riflessioni, ma poco congeniali alla verve irrequieta della magistrata che intanto assiste alle atrocità commesse in Medio Oriente durante le primavere arabe. Così, nel 2012, si va letteralmente a cercare un posto nella Commissione di inchiesta sui crimini in Siria. Anche stavolta il suo impeto affonda nel muro di gomma della maledetta politica. Storia vissuta molte volte dalla giudice Carla Del Ponte che nella sua straordinaria carriera ha conosciuto la vittoria ma anche molte sconfitte, entrambi vissute con lo spirito fiero e testardo di una che ha «l’indipendenza attaccata al corpo» .