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di Alberto Marchesi * Mentre l’attenzione del nostro Paese è tutta rivolta alla drammatica situazione di molte Regioni di Italia, ed alla preoccupata analisi degli scenari politico-economici che ne deriveranno, si sta accendendo una piccola luce sulla situazione di totale abbandono in cui versa il sistema penitenziario italiano, purtroppo ancora insufficiente ad alimentare i riflettori della cronaca. La cosa non sorprende perché le carceri e, in senso più ampio, le condizioni di marginalità non possono fare notizia in quanto non hanno né le stimmate né le caratteristiche per interessare più di tanto l’opinione pubblica, che non ama soffermarsi più di tanto su un mondo che deve rimanere lontano ed invisibile in quanto relegato, per definizione, agli estremi confini della struttura sociale. Del resto la degradata situazione in cui versano gli Istituti di pena, da qualunque angolo visuale si analizzi, ha assunto un ruolo sistemico connotato da un’assoluta normalità, condizione questa purtroppo accettata dalla generalità, tant’è che la componente afflittiva della pena ha ormai riempito ogni spazio, azzerando quasi completamente la speranza di recuperare un senso di legalità nell’esecuzione della stessa. Un mondo sospeso tra giustizia e ingiustizia, nel quale si sta consumando la più eclatante violazione dei diritti inviolabili della persona che sia mai avvenuta nella storia della nostra Repubblica. Il quadro di emergenza carceraria, del resto, è venuto ad esistenza in epoca di gran lunga anteriore all’allarme sanitario dei giorni nostri, basti pensare che la sentenza “Torreggiani”, con la quale la Cedu ha condannato l’Italia per le condizioni detentive inumane e degradanti, risale ormai al gennaio 2013, sebbene faccia riferimento a fatti avvenuti molti anni prima. Il salto all’indietro nel tempo ci porterebbe ad epoche ancor più lontane per cui oggi sentiamo dire, da autorevoli voci di soggetti istituzionali, che negli Istituti di pena non c’è oggi alcun motivo di preoccupazione e che i problemi connessi al rischio di contagio da Covid19, semmai, sono altri. Non occorre una particolare sensibilità per comprendere il significato affatto recondito di questa affermazione, che appare animata dal cinico scopo di conservare, anche per il futuro, un assetto carcerario che, pur connotato da situazioni di palese illegalità che il virus ha portato inaspettatamente alla ribalta, si considera strumento necessario ed indispensabile ad assicurare la salvaguardia di superiori interessi di politica criminale. Durante tutti questi anni ben poco è stato fatto per rendere conforme l’esecuzione della pena detentiva ai più elementari canoni di legalità, dignità e rispetto della persona, mentre le attività culturali, di assistenza e di sostegno anche economico all’interno delle carceri continuano ad essere per lo più affidate al contributo delle Associazioni di volontariato, in assenza del quale la vita di troppe persone sarebbe regolata solo dal lento ed inutile incedere del tempo.La privazione della libertà personale trova la sua giustificazione nella potestà punitiva dello Stato la quale, una volta esercitata, non rende accettabile anche il successivo disinteresse per la salvaguardia di tutti gli altri diritti fondamentali della persona, tra i quali spicca oggi quello alla tutela della salute e dell’integrità fisica. Negli ultimi tempi si è invece intrapresa, a livello normativo, la strada senza ritorno del progressivo e inesorabile inasprimento delle risposte punitive, in ragione al sempre più ampio aumento dell’entità delle pene detentive in rapporto a sempre più numerose fattispecie di reato, con ampio ricorso ai meccanismi di ostatività alla concessione dei benefici penitenziari, senza che ci sia stato un minimo contenimento in termini di maggiore vivibilità degli ambienti carcerari, che sono in condizioni di vivibilità a dir poco disastrose. Più carcere per tutti, insomma, per un periodo sempre più lungo e in condizioni sempre meno dignitose, mentre le poche voci di critica a questa ormai irreversibile tendenza sono state sepolte dal rumoroso applauso agli attori del rigore che assumono di ispirarsi, capovolgendolo, a un immaginifico senso di legalità.L’aspetto esclusivamente punitivo che connota l’attuale sistema sanzionatorio ha in sostanza schiacciato, sotto il suo peso, la finalità rieducativa della pena, in assenza della benché minima volontà politica finalizzata, quantomeno, a rendere le carceri adeguate a sostenere il maggior impatto numerico, con una detenzione che è diventata per ciò stesso ciecamente feroce e, per tale ragione, completamente sottratta alla propria funzione. Oggi, complice la drammatica situazione che stiamo vivendo, la coperta si fa sempre più corta perché proteggere la popolazione penitenziaria e gli operatori di Polizia significa salvaguardare anche le persone che si trovano all’esterno e, più in generale, tutelare i valori primari sui quali si fonda il patto sociale tra lo Stato e la generalità dei cittadini. Nello specifico, gli addetti ai lavori sanno benissimo che nelle carceri non è possibile pretendere il rispetto delle norme di distanziamento sociale né l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, tantomeno assicurare il rispetto delle minime condizioni igieniche raccomandate dalle Autorità sanitarie interne ed internazionali, maggiormente cogenti in presenza di un’alta percentuale di anziani o affetti da gravi patologie. Questa cruda realtà non sembra però turbare il sonno di chi si trova, a livello istituzionale o amministrativo, nella poco invidiabile posizione di garanzia connessa alla Pubblica funzione esercitata, specie in presenza di un pericolo di diffusione epidemiologica la cui concretizzazione appare, oggi, altamente prevedibile e dunque non fronteggiabile con una colposa inerzia. Il problema esiste insomma, tant’è che i più autorevoli sostenitori della linea dell’intransigenza si sono affrettati ad attribuire la responsabilità delle rivolte carcerarie dei giorni scorsi, più che alla paura e al generale senso di abbandono, a un’improbabile regia della criminalità organizzata, cercando in questo modo di dare fattezze e sembianze umane a un nemico che, in realtà, è del tutto invisibile e non sembra trovare ostacoli. Essi oggi invocano in loro favore, semmai, un ampliamento di quello “scudo penale” che si pensa di introdurre a protezione giustificativa dell’operato dei sanitari che, loro malgrado, si sono trovati nella necessità di dover intervenire in condizioni estreme ed eccezionali, situazione questa non ricorrente nella ben diversa posizione di chi, per ruolo o funzione, ha precisi obblighi di intervento che per qualsiasi ragione ha ritenuto di non dover attivare. A fronte della capricciosa debolezza dell’argomentazione il governo, non potendo ignorare la questione, si è limitato a offrire una risposta timida e assolutamente inadeguata, quale emerge dall’analisi dei recentissimi provvedimenti adottati, quasi in sordina, con il D.L. n. 18/20. Si è trattato di un intervento tardivo e preso controvoglia dal Legislatore dell’emergenza tant’è che le norme in questione, nascoste nella parte finale del testo di Legge e distanziate di ben 40 articoli da quelle dettate in tema di Giustizia, non hanno ricevuto alcuna pubblica diffusione da parte del governo e, di conseguenza, degli stessi media, quasi che la loro illustrazione alla cittadinanza portasse a una sconfessione delle fiere promesse di rigore e repressione delle devianze, atteggiamento questo irrinunciabile soprattutto se letto in termini di consolidamento del consenso elettorale. Non è un caso che le misure straordinarie di sfollamento siano indirizzate a pochissime persone, attraverso una procedura lenta e complicata dal riferimento alla necessità del c.d. “braccialetto elettronico”, da molto tempo non immediatamente disponibile neppure nei casi ordinari. L’urgenza della situazione richiede invece l’adozione di interventi normativi ben più incisivi e coraggiosi, che portino rapidamente e senza esitazione a una significativa riduzione delle presenze carcerarie, attraverso l’ampliamento delle misure alternative e riducendo ai minimi termini il flusso di ingresso, prima che sia troppo tardi.In questi giorni, a fronte delle sollecitazioni provenienti dai Garanti territoriali, dal Csm, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dal Cnf, dalle Camere Penali e persino del Santo Padre, interventi questi certamente non orchestrati da oscuri suggeritori, sembra che la posizione di chiusura e rigidità sia destinata ad affievolirsi, anche se vi è il timore che prenda il sopravvento un poco convinto senso di umanità, destinato quindi a operare per il tempo strettamente necessario al superamento dell’epidemia in corso, passata la quale tutto tornerà come prima. Con molta probabilità però la gravissima situazione attuale, una volta superata, lascerà in eredità una drammatica crisi economica e occupazionale, tale da aumentare la forbice delle ingiustizie e delle disuguaglianze sociali.Il che non lascia presagire nulla di buono per la realtà penitenziaria da tempo caratterizzata da diffusi fenomeni di marginalità e povertà che, in un futuro molto prossimo, saremo purtroppo chiamati a fronteggiare anche all’esterno degli istituti di pena. Solo allora, forse, arriverà il momento di pensare a un nuovo assetto sociale, basato anche su una più moderna concezione della pena detentiva, oggi drammaticamente ancorata ad una visione di tipo medievale, esageratamente afflittiva e laconicamente giustificata da superiori esigenze di contrasto dei fenomeni criminali i quali, però, non sono sempre rinvenibili in tutto il complesso di reati, dolosi o colposi che siano, che costituiscono il presupposto della detenzione carceraria. I motivi a delinquere, assai diversi da persona a persona, nella maggioranza dei casi trovano la loro origine in situazioni criminogene anziché spiccatamente criminali, tra le quali spicca il disagio sociale, la povertà o la tossicodipendenza, profili questi che si rinvengono, non a caso, nella storia personale di tutti i 12 detenuti che hanno perso la vita durante la clamorosa protesta nelle carceri avvenuta pochi giorni orsono. Situazioni individuali certamente diverse da caso a caso ma che si sono unificate, in forza della “vis attractiva” determinata dall’epilogo del rispettivo percorso giudiziario, nella medesima ed unica sanzione afflittiva rappresentata dalla privazione della libertà, che colpisce con la sua inesorabile scure tutti i destinatari negli stessi termini e senza distinzione alcuna, meglio se in modo esemplare.Forse è davvero giunto il momento di un cambio di passo all’interno del nostro Paese, che potrà avvenire solo laddove la persona umana, intesa come punto di riferimento di diritti e correlativi doveri, sia riportata al centro del dibattito e vengano definitivamente abbandonati gli ostacoli, pregiudizialmente dogmatici, che impediscono ogni serio tentativo di inquadramento di ogni materia ed, a maggior ragione, di quella che qui interessa. Tutti i giuristi hanno a cuore il principio sacrosanto del giusto processo, universalmente riconosciuto come imprescindibile patrimonio di un moderno stato democratico: accanto ad esso deve però trovare definitiva affermazione anche il concetto di giusta detenzione il quale, pur appartenendo sin dall’origine ai valori fondanti espressi dalla nostra Costituzione, oggi merita davvero di essere finalmente attuato, senza incertezze o esitazioni. * Avvocato Garante per i detenuti di Pisa Membro della Commissione Carceri del Cnf