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«Caporetto, pur non rappresentando né la guerra italiana né gli italiani in guerra, non può essere dimenticata, perché rappresenta un “caposaldo della memoria” e un passaggio imprescindibile per ogni riflessione sulla nostra storia contemporanea». Attraverso un'accurata ricostruzione dello scenario politico e militare e l'accesso privilegiato a una preziosa documentazione inedita, lo studioso Luca Falsini, con il saggio Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta (Donzelli editore), getta nuova luce su uno degli episodi più significativi e caratterizzanti del primo conflitto mondiale, che a distanza di cento anni ancora interroga la nostra identità nazionale. Luca Falsini, quando venne istituita e quali effetti produsse la Commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto? La Commissione venne istituita nel gennaio del 1918, a guerra ancora in corso e a pochi mesi dagli eventi che l’avevano determinata. Il clima in cui si svolsero i lavori risentiva pertanto delle molteplici pressioni provenienti sia dagli ambienti interventisti sia del variegato mondo neutralista, entrambi poco disposti ad attenuare i toni delle polemiche attorno alle ragioni della guerra. La Commissione, che lavorò per circa un anno e mezzo, svolgendo buona parte degli interrogatori in zona di guerra, consegnò nelle mani di Nitti una relazione che indirettamente assolveva i partiti neutralisti dall’accusa di aver sabotato la guerra e i governi Salandra e Boselli per non aver dato alla stessa una ferma guida politica. Le accuse, invece, si incentrarono sui vertici militari (Cadorna, Porro, Capello e Cavaciocchi) e sulle loro discutibili scelte di lunga durata in tema di organizzazione militare, strategia di guerra e governo degli uomini. Badoglio, le cui responsabilità per la disfatta apparvero ai più subito evidenti, venne invece fatto salvo. Quali nuovi elementi ha apportato la documentazione relativa all'Archivio Zugaro cui lei ha avuto accesso? La relazione ufficiale vide la luce nell’estate del 1919 ma divenne pubblica solo alla fine degli anni ’60. La documentazione raccolta, frutto del lavoro dei membri della Commissione e del suo apparato amministrativo, che ascoltò oltre 1000 testimoni in 241 sedute, è stata recentemente inventariata dall’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. Tale documentazione, però, si limita alle dichiarazioni ufficiali. L’Archivio Zugaro, invece, mi ha consentito di mettere mano alle note e ai commenti ufficiosi dei membri della Commissione, ad alcuni scambi epistolari e alle bozze che via via il Presidente Caneva preparò per la relazione ufficiale. Particolarmente interessanti sono le bozze preliminari dei giudizi sui generali maggiormente coinvolti, tra le quali spiccano quelle relative alle responsabilità di Pietro Badoglio. Quanto pesò, sulla rotta di Caporetto, l'estremo offensivismo del generalissimo Cadorna e le istanze repressive da lui propugnate e quanto, invece, la mancata o comunque parziale comprensione e persuasione delle truppe? Negli ultimi anni l’offensivismo esasperato di Cadorna è stato analizzato quasi esclusivamente in funzione delle conseguenze drammatiche che produsse sui soldati, costretti ad attaccare su alture impossibili da conquistare e poi da difendere se non a costo di moltissime perdite umane. Il tema, però, è centrale anche per le riflessioni sull’incapacità di Cadorna nel saper adeguare le proprie strategie militari alle realtà della nuova guerra di posizione. Su questo terreno, attorno al quale la Commissione avrebbe dovuto indagare con maggiore attenzione, il Comandante Supremo manifestò dei limiti incontestabili. Quanto alla “cura delle anime”, pur senza voler enfatizzare eccessivamente il ruolo della propaganda e l’attività svolta in tal senso dal Servizio P nel 1918, appare innegabile lo sforzo dei Comandi e del governo Orlando nel dare ai soldati una maggiore consapevolezza delle ragioni della guerra e nell’offrir loro, al contempo, un supporto morale e materiale che li aiutasse a resistere alla durezza della vita di trincea. Le direttrici disfattiste hanno avuto, nella rotta di Caporetto, quell'importanza decisiva attribuita loro con tale veemenza da Cadorna? E quali diversità, a livello di percezione sociale, dirimevano il disfattismo cristiano da quello di matrice socialista? Oggi sappiamo senza più alcun dubbio che né i socialisti né tanto meno i giolittiani e i cattolici vollero mai dispiegare un’azione di sabotaggio della guerra. Certo, i malumori per la scelta dell’intervento e per le forme con cui fu deciso pesarono molto nelle dinamiche parlamentari e di piazza, creando lacerazioni destinate a sfociare nella guerra civile che si consumò in Italia nel corso del dopoguerra; tuttavia la storiografia, in continuità con quanto già emerso nella relazione finale della Commissione, ha potuto escludere ogni manovra politica delle forze contrarie alla guerra finalizzata a condurre i soldati all’insubordinazione verso le autorità. Non contrastarono la guerra i socialisti, seppur tentati dagli echi della rivoluzione bolscevica, e non lo fecero i cattolici, il cui pacifismo, per dirla con Padre Semeria, concepiva la guerra come un “un flagello di Dio” e solo in quanto tale come una inutile strage. Il pacifismo cristiano, per Semeria, non era minimamente assimilabile al disfattismo socialista, il cui unico scopo era creare nel Paese le condizioni per la rivoluzione. Che conseguenze ebbero i numerosi casi di (in)giustizia militare – come anche l'abuso di esoneri arbitrari di ufficiali e altrettanto arbitrari avanzamenti – sul morale dei soldati? Quasi tutte le testimonianze raccolte dalla Commissione affrontano il tema delicato degli esoneri degli ufficiali. L’insieme di questi racconti mi ha portato a individuare una prima fase della guerra, fino almeno alla spedizione punitiva austriaca (maggio 1916), nella quale il ricorso agli esoneri rispose alla volontà di ringiovanire i vertici delle armate, ponendo al loro comando ufficiali più vicini allo spirito offensivista del comandante supremo, da una seconda fase, nella quale prevalsero logiche “clientelari” e le responsabilità uscirono dalla ristretta cerchia dello Stato maggiore per trovare correità in molti comandanti d’armata. Questo sistema portò molti ufficiali a temere più il nemico alle spalle che quello che avevano di fronte e generò uno scadimento a catena di fiducia tra ufficiali e truppa e tra comandi d’armata e Comando Supremo. Spesso poi l’indiscrezione sull’esonero di un ufficiale arrivava qualche giorno prima della formalizzazione, creando la situazione paradossale di ufficiali che guidavano le truppe privi del loro rispetto e privi della necessaria serenità. Anche in questo contesto Caporetto agì da spartiacque: il 20 novembre, infatti, a pochi giorni dall’assestamento sul Piave, Diaz sentì l’urgenza di emanare una circolare che denunciò l’abuso degli esoneri invitando i comandanti d’armata a fare valutazione più serene e ponderate dell’operato dei propri subordinati. Quanto fu determinante, per le sorti del conflitto, l'attività della Chiesa e quanto essa può considerarsi avvisaglia dei futuri Patti Lateranensi? Più volte gli storici hanno sottolineato che uno dei primi atti politici del Comando Supremo fu l’istituzione nel 1915 dei cappellani militari. La decisione, oltre a essere la naturale conseguenza del forte sentimento religioso di Cadorna, rispondeva a due distinte esigenze, almeno parzialmente contrastanti: da una parte la necessità politica di parte liberale di allargare la base di consenso allo stato italiano, riconquistando – in un’ottica antisocialista – i favori delle masse cattoliche, secondo un percorso che aveva conosciuto pochi mesi prima, col patto Gentiloni, “resa ideale delle élite moderate ai battaglioni del Papa [Isnenghi]”, una tappa assai importante; allo stesso tempo, però, ma con prospettive e finalità diverse, la guerra rappresentava per la Chiesa il terreno ideale per riaffermare i valori cattolici non solo contro il materialismo socialista ma anche contro l’individualismo delle società liberali. Il protagonismo che la Chiesa poté espletare grazie a uomini come Giovanni Semeria, Agostino Gemelli, Giovanni Minozzi e Angelo Bartolomasi fece della Grande guerra un momento essenziale nel percorso di riavvicinamento del cattolicesimo allo Stato italiano, configurandosi de facto come un’anticipazione dei Patti Lateranensi. Cosa può dirci riguardo la pratica dell'internamento, a detta di Giovanni Procacci «prodromo della politica concentrazionaria dei regimi dittatoriali degli anni venti e trenta»? Caduta l’illusione di una guerra di breve durata, tutti i governi dei paesi belligeranti si trovarono costretti a introdurre delle leggi eccezionali, consistenti nella delega alle autorità militari di prerogative che gli statuti e le costituzioni attribuivano ai parlamenti o ai governi. Alcuni paesi con una forte tradizione parlamentare, come l’Inghilterra, riuscirono a bilanciare l’incremento di potere dei militari mentre altri come l’Italia, la Germania e l’Austria, videro investiti i rispettivi comandi di potere amplissimi, addirittura illimitati all’interno delle zone di guerra. L’internamento fu uno degli strumenti più odiosi utilizzati dai militari (ma anche dai Prefetti) per mettere a tacere tutti i fronti potenzialmente pericolosi per la gestione e l’esito del conflitto: i pacifisti, gli anarchici e i socialisti, sul fronte politico; gli austriacanti nelle zone di confine; gli operai e i contadini nelle fabbriche e nelle campagne. Uomini e donne vennero portati via dalle proprie famiglie nel pieno disprezzo di ogni diritto; malnutriti e spesso sottoposti ai lavori forzati, subirono abusi di ogni sorta, per questioni che a volte rinviavano a vendette personali o, comunque, per nulla connesse alle esigenze della guerra. Quali funzioni interessarono la stampa durante la guerra e quali posizioni essa assunse dopo la fine del conflitto? In modo alquanto singolare l’autocensura precedette la censura. Il 23 maggio del 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra, l’Associazione della Stampa offrì al governo e al Comando Supremo la piena disponibilità all’asservimento alle direttive di Cadorna in cambio della libertà di movimento al fronte. A farne le spese furono non solo tutti gli organi di informazione che non vollero adeguarsi a tale scelta ma anche il racconto stesso della guerra. Mistificazioni di ogni sorta accompagnarono la narrazione degli scontri, in cui erano enfatizzati il valore e gli atti eroici di alcuni comandanti, Cadorna in primis, e censurate le sconfitte e tutto ciò che non rinviasse a una visione eroico-patriottica della guerra. Nel dopoguerra i cronisti giustificarono questo atteggiamento con le necessità del conflitto e col ruolo pedagogico che avevano assunto. Ritenevano, in sostanza, che solo nascondendo gli orrori e le difficoltà della guerra il Paese, al fronte come nelle città, avrebbe potuto resistere. La stampa tornò così ad assolvere un reale ruolo critico solo nel primo dopoguerra e in modo particolare nell’estate del 1919, quando la pubblicazione della relazione della Commissione su Caporetto infervorò gli animi dell’opinione pubblica sul complesso tema delle responsabilità di guerra. È corretto parlare di regime autoritario di Cadorna e regime più umano di Diaz? Dopo Caporetto ci fu una spiccata cesura per quanto riguarda la gestione del conflitto? L’ascesa di Diaz segnò un cambiamento radicale nella strategia di guerra. Il riposizionamento sulla linea del Piave, che simbolicamente si concluse proprio il 9 novembre, giorno dell’allontanamento di Cadorna dal Comando Supremo, avviò il passaggio a una più oculata strategia difensiva che venne mantenuta sino agli ultimi giorni del conflitto, quando le pressioni politiche e diplomatiche costrinsero Diaz a tornare all’attacco. L’altro grande elemento di discontinuità si ebbe sul piano dei rapporti tra Comando e Governo: tanto Diaz quanto Orlando compresero meglio dei loro predecessori l’importanza, nelle guerre moderne e totali, della collaborazione tra fronte interno e trincea e quindi tra autorità civili e militari. Meno evidente, invece, sebbene non priva di alcuni importanti riscontri, la discontinuità sulla cura del morale dei soldati prima e dopo Caporetto. E’ innegabile la maggiore attenzione data dal nuovo Comando Supremo ai soldati, attraverso doni, sussidi, licenze e conforto morale, tuttavia la durissima disciplina che caratterizzò la gestione Cadorna non scomparve del tutto nel ‘18. Ne fu testimonianza, ad esempio, il trattamento destinato ai prigionieri del dopo-Caporetto, considerati dei traditori e abbandonati alle atroci sofferenze della prigionia. Come si spiega l'attenuazione, nella Relazione della Commissione d'inchiesta, delle responsabilità attribuibili a Badoglio? L’Archivio Zugaro mi ha consentito di dare ufficialità alle accuse che molti generali, politici e studiosi hanno mosso nei confronti di Badoglio per l’inazione delle artiglierie del XXVII corpo della seconda armata durante i primissimi attacchi del nemico. A lungo si è parlato di alcune pagine stralciate dalla relazione finale per coprire le responsabilità dell’uomo che nel frattempo era divenuto Sottocapo di Stato di Maggiore dell’Esercito. Effettivamente i giudizi relativi alle responsabilità di Badoglio vennero redatti dai componenti della Commissione in tre diverse bozze che poi furono cassate dalla relazione. Le ragioni di questo “salvataggio” sembrano rinviare più alla necessità di non infangare il nuovo Comando Supremo che non a presunte piste massoniche. Le accuse sono quelle note: Badoglio disobbedì agli ordini che Cadorna aveva dato al suo diretto responsabile, il generale Capello, comandante della seconda armata, di attestarsi su posizioni difensive, preferendo rischiare una “manovra napoleonica” di tipo controffensivo che fece mancare alla resistenza al nemico l’importante contributo dell’artiglieria del suo corpo. È giusto assimilare la guerra italiana a una visione tipicamente caporettocentrica? Caporetto è uno snodo fondamentale della nostra storia contemporanea; non perché rivelò – come molti hanno voluto sostenere – i limiti del carattere italiano, poco propenso alla cultura di guerra e al sacrificio per la comunità nazionale, quanto per i cambiamenti politici e militari che produsse (la caduta di Boselli e di Cadorna, la riduzione del fronte di combattimento e il cambiamento di strategia) e perché accelerò alcuni processi, strettamente connessi alle politiche di gestione del consenso, che influenzarono in modo evidente alcune scelte politiche del regime fascista. Ma dopo Caporetto ci fu Vittorio Veneto, che almeno sul piano militare riscattò la sconfitta. I soldati, che avevano combattuto egregiamente nei primi due anni e mezzo di guerra e che già nella fase di ripiegamento sul Piave avevano dimostrato di sapersi ritrovare dopo l’iniziale e comprensibile sbandamento, diedero nel corso del ’18 prova di grande resistenza al nemico, conducendo il Paese alla vittoria. E questo non possiamo dimenticarlo.