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Dopo l’attacco killer al London Bridge di venerdì scorso da parte di un estremista islamico già in carcere per terrorismo, sembra ritornare quel clima di paura e incertezza che, dal giugno 2014, con la proclamazione del Califfato ha scosso l’Europa . La quale non è affatto estranea a tale fenomeno visto che è uno dei principali luoghi di transito di una vasta rete jihadista che ha nei Balcani, e precisamente nella Bosnia Erzegovina, il suo epicentro.
Secondo il Kosovo Centre for Security Studies ( KCSS) la Bosnia, seguita da Kosovo, Belgio e Albania, sono i principali esportatori di foreign fighter. In testa la Bosnia che, a vent’anni dagli accordi di Dayton, secondo i dati riportati in uno studio dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence ( ICSR) tra il 2012 e il 2015, il periodo di massima espansione dello Stato Islamico, registra la presenza di 350 foreign fighters partiti dalla Bosnia. Quindi i Balcani, per lo Stato Islamico, non sono solo un bacino a cui attingere per esportare miliziani, ma anche una base sicura per allargare il reclutamento in tutta Europa. Come mai questo primato?
La sanguinosa guerra civile che ha smembrato l’ex Jugoslavia negli anni ‘ 90 ha lasciato ferite tutt’ora aperte. La Bosnia, abitata dai bosgnacchi, è prevalentemente musulmana perché convertita all’Islam durante la dominazione ottomana. Ma i costumi si erano secolarizzati sotto il regime socialista di Tito, con matrimoni misti, piena integrazione, diritti sociali e civili e l’abolizione di vetusti retaggi come madrasse, il velo, tribunali religiosi ecc. La nuova costituzione del 1974 metteva i musulmani alla pari di altre etnie.
Le cose cambiano in quel decennio: Alija Izetbegovic, padre dell’Islam politico bosniaco, pubblica nel 1970 la Dichiarazione islamica, che vede nel Corano un fattore di modernizzazione entro una società musulmana. Con la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 la dirigenza socialista ostracizza tale corrente, che risorge nel 1990, con lo Sda, il Partito di azione democratica, un’ «alleanza politica dei cittadini della Jugoslavia appartenenti alla sfera storico- culturale dell’Islam», con presidente Izetbegovic. Non un partito islamista a favore della sharia, ma un soggetto conservatore che ambiva alla sovranità politica dei musulmani.
Fu la guerra civile ad accelerare l’islamizzazione della Bosnia: se oggi il Paese è disseminato di comunità wahabite ultraconservatrici è perché in quegli anni molti mujahidin sono accorsi dall’Afghanistan, l’Arabia Saudita e la Cecenia per soccorrere i “fratelli musulmani”, ricevendo in cambio onorificenze e la cittadinanza.
Questo legame ha rafforzato l’infiltrazione islamista, prevalentemente di stampo wahhabita e salafita, con ingenti fondi provenienti dai paesi del Golfo in primis. Non parliamo quindi di un Islam radicale giudicato “apostata” dalla stragrande maggioranza dei musulmani al mondo, un’infiltrazione malvista dai musulmani autoctoni sufi che non vedono di buon occhio il “corpo estraneo” wahabita, ma anche dalle comunità cristiane della zona, che si sentono accerchiate e in grande difficoltà nel praticare la loro fede, come testimonia il cardinale Vinko Puljic, Arcivescovo di Sarajevo: «Non riusciamo a costruire chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo».
Secondo Gojko Vasic, direttore della polizia della Repubblica Srpska – la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, entità serba dello stato balcanico –, intervistato da Analisi Difesa, i fondamentalisti islamisti schedati sono almeno 3mila. Perquisizioni avvenute in tutto il paese nel 2015 hanno permesso il ritrovamento di armi, esplosivi e materiale propagandistico.
«Comunità fondamentaliste wahabite e salafite sono disseminate in tutto il Paese: Buzim, Zenica, Velika Kladusa, Osve, Bocinya, Gornja Maoca, Potocansky, Kaleaija, Bosanska Bosna, e sono solo le più note». L’accondiscendenza delle autorità è un’altra grave contraddizione, visto che si segnalano in molte zone del paese enclavi abitate esclusivamente da personaggi dai tipici abiti wahabiti, con lunghe barbe, accompagnati da donne velate. «Possiamo tenere sotto controllo solo quelle che si trovano sul territorio di nostra competenza – continua Vasic –, ma avremmo bisogno di una collaborazione più stretta con la polizia della federazione croato- musulmana per agire efficacemente.
Invece capita spesso che membri del governo bosniaco intralcino le indagini, affermando che approfittiamo di incidenti per portare avanti una nuova forma di pulizia etnica». E questo non solo nelle campagne, ma nella capitale, nella moschea “Re Fahd” di Sarajevo, sede diplomatica dell’Arabia Saudita.
L’indottrinamento religioso e l’adesione alle cellule islamiste è direttamente proporzionale, visto che la maggioranza dei volontari censiti proveniente dalla Bosnia frequentava madrasse, centri culturali e moschee. Non è casuale che uno dei protagonisti della radicalizzazione il predicatore Bilal Hussein Bosnic, abbia avuto come discepoli Nerdin Ibric e Avdulah Hasanovic, due jihadisti che nella primavera del 2015 assaltarono una stazione di polizia a Zvornik, nella Bosnia serba. Hasanovic era reduce dell’Isis, mentre il complice era figlio di un reduce ucciso dai serbi nel 1992. Il predicatore inoltre, non era estraneo all’Italia visto che frequentava abitualmente i centri islamici di Bergamo, Siena, Pordenone e Cremona, e almeno tre jihadisti reclutati dall’Italia – Munifer Karamaleski, Elmir Avmedoski e Ismar Mesinovic – provenivano dalla sua rete.
L’islamizzazione è di fatto una pulizia etnica soft, fatta senza sparger sangue. Come denuncia il citato cardinale Puljic, il processo è sovvenzionato dall’Arabia Saudita e dal ’ 91 a oggi” si è passati da 800mila cattolici a circa 430mila.
Va detto che il grosso dei jihadisti è tendenzialmente giovane, disoccupato o comunque in condizioni precarie o di povertà, delusi dei fallimenti della fase post- comunista e dell’europeizzazione. In Kosovo, ad esempio, il 43% della popolazione totale ha meno di 25 anni con un tasso di disoccupazione generale del 33% e del 57,7% per quella giovanile, mentre in Bosnia tra il 2012 e il 2016 la disoccupazione giovanile ha raggiunto picchi del 63%. La radicalizzazione è avvenuta in contesti economicamente e socialmente marginali.
Cosciente di ciò, l’Isis ha fatto leva sulle difficili condizioni di vita in questi contesti e nel 2015 ha pubblicato un video dal titolo Honor is in Jihad. A message to the people of the Balkans, che analizza “l’umiliazione subita dai musulmani” dalla caduta dell’Impero Ottomano agli anni ‘ 90, dando come soluzione la nichilistica jihad contro i “miscredenti”, come in un video diffuso nella banlieu francesi, dove vige, non casualmente, una condizione di estrema emarginazione sociale.
La radicalizzazione è figlia dalla fine della Jugoslavia socialista, che ha creato un profondo smarrimento fra la popolazione che ha vissuto una condizione multietnica, mentre le giovani generazioni vivevano nell’instabilità costante, senza riferimenti certi, contraddittori.
E il collasso militare dello Stato Islamico non ha aiutato, dato che un 30% dei miliziani è ritornata a casa, condizione che potrebbe favorire la crescita e la diffusione di cellule autonome in grado di colpire facilmente il cuore d’Europa. Se da una parte le istituzioni europee devono vigilare perché il processo non si limita alla sola immigrazione extraeuropea, forse la sfida per i paesi coinvolti è quella del reinserimento dei soggetti, strada senz’altro complicata e pericolosa a causa della debolezza delle istituzioni democratiche nell’area.