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La morte del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli ha ricreato quel partito di laudatores formato da inquisitori, direttori di giornali e tv e politici codardi, che negli anni 1992- 93 mise in scacco la democrazia e inventò il populismo giudiziario.
Al funerale della nostalgia abbiamo rivisto in lacrime Di Pietro, cui qualcuno ha prestato la toga che lui lascò nel ’ 94, abbracciato a Gherardo Colombo, il più aristocratico del pool, che sentenzia come la corruzione oggi sia peggio di ieri. Che è poi quel che pensa Davigo, e cioè che i politici ancora in libertà sono i colpevoli non ancora scoperti.
L’unica novità, in questo clima di rimpianti, è che la “società civile”, quella che manifestava con le fiaccole gridando “Borrelli facci sognare” oggi alla commemorazione non c’è. Ha altri problemi. E non sappiamo se nella memoria sia rimasto il Borrelli dei suoi primi sessant’anni di vita, o quello di “Mani pulite”, orribile espressione da Stato etico.
Sul procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli avevo scritto nel 1995 la prefazione all’” Autobiografia di un inquisitore” ( non autorizzata ) di Giancarlo Lehner. Un libro forte, che ricambiava senza troppi riguardi la ferocia dei metodi che avevano distrutto per via giudiziaria la classe politica di governo della Prima repubblica. Metodi e anche linguaggio.
Chi avrebbe mai potuto prevedere che una persona definita “scialba”, ma anche “per bene”, piuttosto che mite, elegante e gentile e colta come il dottor Borrelli, si sarebbe trasformata in un capo procuratore che dice senza pudore una frase come questa: “Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Il fine che giustifica il mezzo, sulla bocca di un inquisitore, può portare al paradosso, al di là delle intenzioni, di giustificare “qualunque” mezzo, fino alla tortura o alla pena di morte, per raggiungere lo scopo.
La frase del procuratore aveva in sé anche una sua crudeltà, se pensiamo a quanti, dopo le inchieste di “mani pulite” e dopo una lunga e ingiusta carcerazione preventiva, sono stati assolti e ai quarantuno che si sono suicidati.
La mia prefazione al libro l’avevo dedicata a uno di loro, quel Gabriele Cagliari che avevo incontrato nel carcere di San Vittore pochi giorni prima della morte, che era di buon umore perché pensava di uscire e che un’altra crudeltà aveva poi portato a un altro destino.
Non ricordo che nessun magistrato della procura ( tranne Antonio Di Pietro ) abbia mai pronunciato parole di compassione nei confronti dei tanti morti di Tangentopoli, anche se oggi la figlia del procuratore Borrelli, in un’intervista al Corriere, dice che il padre soffrì per i suicidi. All’epoca, se soffrì, lo fece in silenzio.
Eppure il Borrelli di “mani pulite”, il Borrelli che inneggiava alle manette come strumento per raggiungere la verità, il Borrelli che nel 1994 disse esplicitamente a Silvio Berlusconi “chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”, e che subito dopo il trionfo di Forza Italia , si offrì al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio dci complemento”, non era il Borrelli che avevo conosciuto io. Prima.
Ma prima era prima. Ero cronista giudiziaria fin dagli anni settanta, il palazzo di giustizia di Milano era la mia seconda casa. Da quando era diventato procuratore capo della repubblica, il dottor Borrelli mi vedeva ogni mattina e sapeva con certezza che la mattina successiva sarei stata lì, con la petulanza del cronista, a tormentarlo per avere notizie.
Pure un pomeriggio, con sorpresa mia e dei miei colleghi, lui si avventurò nello scantinato di via Sottocorno dove c’era la redazione milanese del Manifesto, per una piccola precisazione su un mio articolo. Non una smentita, ma una puntualizzazione. E si era spinto fino al nostro sotterraneo, scusandosi molto, quasi con timidezza, solo per chiarire un punto di non so quale inchiesta.
Quello era il Borrelli che mi era sempre piaciuto. Ma poi le inchieste di “mani pulite” hanno cambiato tutto, hanno cambiato le persone e prodotto un impazzimento generale. Fino al famoso “Resistere resistere resistere come sulla linea del Piave”, la sua relazione da procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002, un vero proclama politico che diventerà, purtroppo, il suo testamento prima della pensione.
In quello stesso discorso Francesco Saverio Borrelli contribuì a creare una situazione da stadio, con gente che applaudiva, magistrati in toga nera su indicazione del loro sindacato, politici che lasciavano l’aula, e lui che arringava, scagliandosi contro il governo. E mentre tuonava contro la separazione della carriere usando anche l’argomento più frusto, cioè il timore di una sottoposizione del pm all’esecutivo, nello stesso momento assumeva lui stesso, lui capo di tutti i pubblici ministeri, il ruolo del leader politico dell’opposizione.
Non era mio amico, il dottor Borrelli, come lo era stato invece il suo vice Gerardo D’Ambrosio, che mi aveva deluso in modo più bruciante. Non era mio amico ma l’avevo sempre rispettato. E spero che, nei momenti in cui si comincia a fare i conti con la propria vita, nella sua memoria sia prevalsa la storia di se stesso come la persona gentile e mite che io avevo conosciuto e che un giorno si era avventurata nello scantinato del Manifesto. A me piacerebbe poterlo ricordare così. Anche se è difficile.