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Appena un anno fa combatteva contro il Covid in un reparto di terapia intensiva di un ospedale londinese.
Fisicamente malconcio e politicamente al lumicino, con la gran parte dei media e dell’opinione pubblica che chiedeva a gran voce la sua testa per la gestione sciagurata della pandemia. I boomaker, che difficilmente si sbagliano, prevedevano che entro gennaio avrebbe sloggioato da Downing street. Si sbagliavano.
Chi l’avrebbe mai detto che a 12 mesi di distanza il governo di Boris Johnson sarebbe stato il primo ad aver quasi domato il virus. Mentre l’’ Europa di Draghi, Merkel, Macron, delle frugali e virtuose nazioni nordiche è sferzata dal morbo con centinaia di vittime quotidiane, la Gran Bretagna ieri registrava meno di dieci decessi. Circa tremila i contagi con un curva che nelle ultime settimane sta scendendo giù in picchiata.
La campagna di vaccinazione con il siero AstraZeneca avviata lo scorso dicembre ( primo Paese in Europa) sta dunque funzionando alla grande: oltre trenta milioni di britannici hanno già ricevuto la prima dose, cinque milioni anche la seconda. Sono tutti over 60, il che spiega la caduta verticale del numero di morti e l’ottimismo che finalmente aleggia oltremanica.
E ora Johnson può tranquillamente annunciare riaperture progressive, allentare la vite delle zone rosse e ridare ossigeno all’economia. Una vittoria clamorosa per chi ha attraversato “l’ora più buia” tra il dileggio generale, sbeffeggiato dalle cancellerie europee e assediato in patria.
Proprio come il suo modello Winston Churchill, uno che ha vissuto di mirabili ascese e clamorose cadute, dato per finito decine di volte e poi eroico salvatore della patria, trionfatore nell’ostinata e solitaria resistenza alla Germania di Hitler.
Se la storia è una trama di destini incrociati e di vite parallele, la parabola di Boris si intreccia indissolubilmente con quella del suo più nobile antenato politico. Con il quale, oltre al carattere testardo e al senso dell’umorismo, ha sempre pensato ( o voluto pensare) di avere una specie di simbiosi politica come scriveva alcuni anni in The Churchill factor - How one man made history, la brillante biografia che ha consacrato proprio al suo mito.
Le analogie tra i due personaggi in effetti non sono poche e quando Johnson scrive di Churchill sembra quasi che voglia ritrovare se stesso dietro lo specchio della Storia. Che per Boris non è solamente un accumulo deterministico di cause strutturali, ma può subire improvvisi ribaltamenti grazie alle intuizioni e all’agire di una singola personalità, convinto che alcuni individui dotati di un carisma superiore ne possano modificare il corso.
Navigando allegramente sulle contraddizioni, conservatore nelle idee «ma liberale nel sentire», edonista irascibile, ma attento ai problemi sociali, autarchico e cosmopolita, ipocondriaco e depresso ma con una forza leonina che lo fa rialzare in piedi ogni volta, anche lui giornalista in gioventù e scrittore ipertrofico. Una personalità ingombrante, affascinante e sgradevole con cui giunge a un’identificazione quasi morbosa.
Sempre in chiave polemica con il presente e il politically correct che così tanto detesta: «Oggi Churchill sarebbe considerato un sessista, imperialista e affarista, c'è da dubitare sul fatto che qualcuno potrebbe assegnare ad una personalità così singolare ed eccentrica un qualunque incarico pubblico».
Anche Johnson è considerato dai suoi tanti detrattori come un politico sui generis, un demagogo umorale ed egocentrico, poco incline al ricamo diplomatico e sempre sull’orlo di commettere disastrose gaffe.
Nel lungo negoziato per la Brexit si è dimostrato un autentico cagnaccio, inflessibile su ogni passaggio, sicuro che l’autarchia britannica avrebbe prima o poi dato i suoi frutti mentre tutti gli indicatori economici suggerivano il contrario. E ancora una volta sembra aver avuto ragione.