PHOTO
Bogotà
Quando nel 2016 fu firmato l’accordo di pace fra il governo colombiano e le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie) tutti pensavano che fosse finita quella lunga scia di violenze e sangue durata un cinquantennio che aveva travolto, fra gli altri, migliaia di civili inermi (6.500 solo fra il 2002 e il 2008), oltre che membri dei due schieramenti armati. La felice disposizione, se non proprio l’ottimismo, di quel momento portò addirittura alla creazione del JEP ( Giurisdizione Speciale per la Pace), un organismo da cui ci si aspettava la composizione del conflitto fra le vittime e chi aveva perpetrato le violenze pregresse: un po’ sull’esempio di ciò che era accaduto, con esiti molto più positivi, nel Sud Africa di Mandela e Tutu. Sullo sfondo della guerra fra governativi e FARC erano periti anche centinaia di avvocati e, più in generale, operatori per i diritti umani, tanto che già nel 2014 era stata dedicata una prima volta la Giornata dell’Avvocato Minacciato alla Colombia. Da allora in poi, si sperava, gli avvocati avrebbero potuto agire indisturbati e difendere, se questa era la loro decisione, i più deboli, coloro che più reclamavano l’affermazione di diritti negati. Non è andata così. Le FARC hanno dismesso le armi, ma al loro posto sono rimaste formazioni politiche (come lo ELN) con cui il governo non ha voluto trattare e sono sorte nuove formazioni armate che mescolano istanze politiche, magari autonomistiche, a diversi traffici generalmente legati all’illegalità e ai cartelli, interni ed esteri, della droga. La repressione governativa molto spesso ricorre alla violenza, soprattutto per reprimere quelle istanze di salvaguardia dell’ambiente, che sembrano essere il tema centrale dello scontro attualmente in atto in Colombia: terra tanto meravigliosa e meravigliosamente ricca dal punto di vista ambientale, paesistico e delle risorse naturali quanto devastata dalle differenze economiche e sociali. In questo scontro rinvigorito e permanente spesso sono gli avvocati a essere, di nuovo, i bersagli preferiti. Dalla firma degli accordi di pace all’ottobre del 2021 il numero delle vittime fra avvocati e difensori dei diritti umani è stato di 1251, di cui 65 “certificati” nel solo 2020. Nel 2021 è stata repressa con brutalità inaudita una civile protesta, durata due mesi, contro il nuovo sistema tributario che tartassava ulteriormente i ceti medio-bassi. E’ questo lo scenario in cui si sono avutigli ultimi omicidi e violenze e intimidazioni contro gli avvocati. E’ soprattutto la violenta intimidazione il metodo per far sì che gli avvocati che difendono i più deboli o il diritto collettivo a non vedere spogliato e depredato l’ambiente dismettano il loro mandato. Spesso utilizzando il solito paradigma: l’avvocato è complice, quanto meno morale, dei suoi assistiti. Si aggiunga che in Colombia non esiste un consiglio Nazionale Forense, né gli avvocati sono strutturati in ordini o associazioni riconosciute: la loro indipendenza e la loro professione è esposta ad ogni attacco. Intimidazioni, ferimenti, uccisioni provengono sia dal governo che dalle formazioni criminali. Di tutto ciò ha scritto un bel libro la collega Flavia Famà del Foro e della Camera Penale di Catania (I morti non parlano - La guerra infinita in Colombia, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2021) che ha soggiornato in quel paese ed è figlia del collega Serafino Famà, ucciso nel 1995 per non essersi voluto piegare di fronte a chi voleva che distorcesse il suo dovere di difensore. In ricordo di Serafino Famà il Foro catanese ha messo una lapide nell’ingresso del locale tribunale, che riporta una citazione di Benjamin Constant che Famà scriveva sul frontespizio dei codici penali che via via comprava: “Per quanto imperfette siano le forme, hanno sempre il potere di proteggere. Sono esse le nemiche giurate della tirannide popolare o di altro genere”. La regola deve valere per ciò che gli avvocati fanno non solo a Catania, ma dappertutto, anche in Colombia. (*Osservatorio Avvocati Minacciati UCPI)