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Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu attends a press conference at the Government Press office in Jerusalem, Wednesday, Sept. 4, 2024. (Abir Sultan/Pool via AP)
Dopo l'operazione Nuovo Ordine in Libano, la decimazione dei vertici di Hezbollah nel giro di dieci giorni, la popolarità di Bibi Netanyahu è risalita in Israele per la prima volta. Non è sorprendente.
Il trauma estremo che il 7 ottobre ha rappresentato per gli israeliani si deve alle dimensioni e alla ferocia della strage ma anche alla sensazione diffusasi per la prima volta di una assoluta inefficienza dell'apparato difensivo, dei leggendari servizi segreti, dell'efficienza bellica. Cioè di tutto ciò che garantiva alla popolazione una sensazione di sicurezza e forza. Quel mito era crollato sotto le centinaia di cadaveri uccisi il 7 ottobre e la brutalità dell'operazione a Gaza non lo aveva affatto ricostruito. Quella guerra è troppo feroce, troppo indiscriminata e non ha raggiunto i risultati più attesi: prima di tutto la liberazione degli ostaggi, poi l'uccisione o la cattura del principale responsabile della mattanza di un anno fa, Jaja Sinwar.
In Libano Israele si è invece mosso con la precisione, l'efficienza e la superiorità sia tecnologica che di intelligence che erano alla base del mito della forza israeliana. Per la prima volta Israele è sembrata tornare se stessa e la reazione della popolazione, l'impennata della popolarità di Bibi, è conseguente. Per la prima volta dall'invasione di Gaza, inoltre, gli israeliani hanno avvertito una ricaduta positiva in termini di rapporti internazionali.
La reazione dei Paesi arabi, e anche di una parte della popolazione sunnita, è stata infatti ben diversa e per molti versi tacitamente opposta all'isolamento inaudito, mai verificatosi in precedenza, che ha circondato lo Stato ebraico in seguito alla mattanza di Gaza.
Persino la sceneggiata studiata nei particolari di Netanyahu all'Onu, l'ostentata tracotanza, l'accusa di antisemitismo rivolta all'assemblea delle Nazioni Unite, la scelta spettacolare di dare il via all'operazione che ha portato all'uccisione di Nasrallah subito dopo il violento discorso, con tanto di foto a immortalare la telefonata fatale, è stata probabilmente vissuta come un gesto liberatorio. È impossibile dire oggi se Neatnyahu riuscirà a consolidare la popolarità recuperata. Dipenderà in buona parte dall'esito della guerra in generale e di quella in Libano in particolare: sia perché in Libano Israele ha subito i suoi due unici fallimenti prima del 7 ottobre, a metà anni ' 80 e nel 2006, sia perché il ritorno delle decine di migliaia di sfollati dalle zone prese di mira da Hezbollah in questi mesi è dirimente. Ma l'esito di questa battaglia, nella quale la posta in gioco è l'immagine di Israele agli occhi della propria stessa cittadinanza e dei nemici è per certi versi l'elemento più rilevante in gioco nella guerra. Per capirne le ragioni bisogna però tornare a chiedersi cosa si proponeva Hamas con l'attacco di un anno fa.
A 12 mesi di distanza, lo scopo che si prefiggeva il movimento islamista palestinese resta sconosciuto. Se Israele ha fatto prigionieri che conoscevano la strategia di Hamas e li ha interrogati, non ne ha poi fatto sapere niente. Un anno dopo siamo ancora alle ipotesi dell' 8 ottobre. Alcune delle quali sono però poco realiste.
L'idea che Hamas si proponesse di scatenare una insurrezione generale contro lo Stato ebraico, non sta molto in piedi. Un'insurrezione si prepara, non ci si affida alla speranza. In tutta evidenza quella preparazione, in Cisgiordania ma anche in Libano, non c'era. L'idea che l’obiettivo fosse far saltare gli accordi di Abramo è sensata, ma sino a un certo punto: un’esperienza decennale dovrebbe aver insegnato ai palestinesi che con azioni eclatanti e sanguinose possono rallentare eventuali accordi ma non affossarli e il prezzo pagato, la completa distruzione della struttura dell’organizzazione a Gaza e probabilmente di Hezbollah in Libano, sarebbe troppo alto per quel colpo di freno. L'obiettivo più probabile era probabilmente proprio infliggere un colpo da ko alla immagine di invincibilità di Israele, dimostrarne nel modo più clamoroso e sanguinoso la vulneralbilità e la fragilità con ciò stesso chiamando a una ripresa della rivolta i palestinesi tutti.
È facile pensare che nelle previsioni di Hamas il prezzo di una simile vittoria anche piscologica e simbolica sarebbe dovuto essere caro ma non carissimo. La reazione di Israele sarebbe stata infatti prevedibilmente temperata dall’esigenza di mettere al primo posto la salvezza degli ostaggi, principio quasi sacro al quale Israele non aveva mai derogato. Quel prezzo, come disse apertamente il leader poi ucciso Ismail Haniyeh, sarebbe stato a propria volta utile per risvegliare «lo spirito rivoluzionario».
Quella strategia é stata vanificata dalla decisione del governo israeliano di non mettere per la prima volta in testa alla propria agenda la salvezza degli ostaggi ma anche così Israele si è trovata in difficoltà non minori: isolata nel mondo come mai prima, lacerata e divisa dalla violazione di un principio fondante quale il primato della salvezza della vita dei suoi cittadini a ogni costo. L'offensiva contro Hezbollah è la prima reazione vincente su tutti i piani di Bibi Netanyahu ma la sua guerra è ancora lunga e dall'esito assolutamente incerto.