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Nell’ottobre scorso Giuseppe De Rita spiegava al Dubbio che «all’Italia serve una nuova élite» perché «non esiste società complessa che ne possa fare a meno». Poi tutto è tracimato. Del tema si è impossessato Ernesto Galli della Loggia. Che prima ha messo nel mirino le élites internazionali e poi se l’è presa con quelle nostrane.
Ma il botto più grosso l’ha fatto lo scrittore Alessandro Barricco che ha spiegato: «È andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Vuole che si scriva nella Storia che le èlites hanno fallito e se ne devono andare».
Su un’analisi così spietata è piombato Enrico Mentana, riprendendo e dando ampio spazio nel suo Tg alle argomentazioni di Baricco, facendole in qualche modo proprie. Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, ha provato a sistematizzare la questione: «Possiamo vivere senza élites?».
Popolo vs élites; alto contro basso delle società. Tema che a molti può apparire talmente etereo da diventare siderale. Però è un errore. Popolo vs élites: battaglia giusta o esercizio trasformistico per trovare capri espiatori?
Ma chi ha cominciato? Tralasciando le analisi, i saggi, le ricerche, gli studi, gli approfondimenti e restando, diciamo così, alla superficie del dibattito sui media, la palma spetta al Dubbio. Dalle cui pagine già nell’ottobre scorso Giuseppe De Rita, intervistato da Franco Insardà, spiegava che «all’Italia serve una nuova élite» perché «non esiste società complessa che ne possa fare a meno». E che questa nuova élite avrebbe dovuto avere come bussola «l’etica della responsabilità e non quella delle buone intenzioni che storicamente ha prodotto il nazismo, il fascismo e il comunismo». Poi tutto è tracimato. Del tema si è impossessato Ernesto Galli della Loggia. Che prima ha messo nel mirino le élites internazionali, colpevoli di aver puntato tutto sulla globalizzazione: i cui frutti avvelenati hanno prodotto una delegittimazione che ha portato allo scontro ( perso) con il resto della società. E poi se l’è presa con quelle nostrane, irrimediabilmente ammalate di autoreferenzialità, refrattarie al merito come criterio di selezione; colpevoli di preferire i rapporti personali ed il familismo alla sana competizione tra talenti.
Ma il botto più grosso l’ha fatto lo scrittore Alessandro Barricco con un vero e proprio j’accuse come redivivo Emile Zola. L’autore di Oceano mare ha spiegato che «è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Vuole che si scriva nella Storia che le èlites hanno fallito e se ne devono andare». Tuttavia «la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites; e più lo fa, più vince e più si fa male». L’unico antidoto possibile è la cultura, «smettendo di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa di lì la nostra felicità».
Su un’analisi così spietata è piombato Enrico Mentana, riprendendo e dando ampio spazio nel suo Tg alle argomentazioni di Baricco, facendole in qualche modo proprie. Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, ha provato a sistematizzare la questione: «Possiamo vivere senza élites? Come si è arrivati al loro suicidio sommerse dalla disapprovazione generale? Quanto tempo impiegheremo a considerare élites la nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia?».
Popolo vs élites; alto contro basso delle società. Tema che a molti può apparire talmente etereo da diventare siderale: altri sono i problemi, dal lavoro alla sicurezza, dall’immigrazione alla crescente disuguaglianza. Però è un errore. Infatti che si tratti di un nervo scoperto della descrizione del “nuovo” che si sta imponendo nelle società occidentali, è un fatto. Come pure è un fatto che solo analizzando e spiegando le ragioni di questa specie di lotta di classe 2.0, asprissima e senza tregua, si può tentare di comprendere la direzione che prenderà il futuro.
Più che un argomento di discussione si tratta di una voragine ideale e valoriale della quale nessuno può pretendere di possedere le esclusive chiavi di comprensione. Forse è utile operare una prima distinzione: in troppi con intenti non sempre irreprensibili - si affannano ad accomunare in un unico fascio delegittimante élites economiche, finanziarie, sociali, sovranazionali assieme a rappresentanze politiche ed istituzionali che non solo sono obbligate ma risultano addirittura salvifiche nelle società complesse. Mischiando tutto, il pericolo è che si finisca per buttare assieme all’acqua sporca delle logge, delle lobby opache, delle incrostazioni e dei favoritismi che fanno collassare l’ascensore sociale, anche il bambino della delega liberamente assegnata. Cioè il cuore pulsante di ogni sistema che si definisca democratico.
E’ giusto e doveroso attaccare sclerotizzazioni che portano un pezzetto sempre più esiguo delle società ad assommare un potere e una capacità di cooptazione enorme nelle proprie mani. Ma bisogna stare attenti a non svilire il ruolo e la portata della rappresentanza politica, al di fuori della quale alligna l’arbitrio dei più forti. Di qui è possibile un primo accenno a Baricco: ci vuole più cultura ma guai a pensare che possa crescere e sconfiggere le spinte dissolutrici a discapito della politica. E’ esattamente il contrario: solo l’esercizio della politica - da svolgersi entro regole precise, condivise e rispettate - può salvare dalla barbarie dei più potenti. Sono le istituzioni politiche, a partire dal Parlamento e poi dal governo, dalla magistratura e dai vari poteri pubblici opportunamente bilanciati l’un l’altro, a poter garantire l’adeguato svolgimento della competition tra interessi diversi e la loro composizione ai fini del bene generale nelle società complesse.
Proviamo, per brevità, a saltare altri passaggi e a venire, a giudizio di chi scrive, al nocciolo più significativo della questione. Non c’è dubbio che sia in atto un gigantesco sommovimento sociale che individua nelle élites la responsabilità del fallimento delle ricette anticrisi e addossa ad esse la colpa di aver ristretto a loro vantaggio la redistibuzione della ricchezza e la tutela delle condizioni di nenessere raggiunte. E’ un fenomeno di proporzioni epocali, da maneggiare con cura. Il rischio che va evitato è che alla fine non si risolva tutto nell’ennesimo giro di giostra all’italiana, in un riflesso ammiccante che individua il capro espiatorio e gli getta addosso tutte i misfatti lavandosi le mani dalle proprie responsabilità. In un ritorno al più gattopardesco dei girotondi.
Globalizzazione e crisi economica hanno sconvolto l’Occidente ma i cittadini sono rimasti gli stessi, con le loro qualità e i loro difetti. Significa, per stare nelle cose, che se in Italia lobby, consorterie e élites ( che non sono affatto la stessa cosa) hanno prosperato è anche perché gli italiani della Prima, Seconda e magari anche Terza Repubblica preferiscono ingegnarsi per cercare il santo in paradiso piuttosto che gareggiare, molto più faticosamente, per emergere in virtù dei propri talenti. Spesso, anzi spessissimo è vero, quei talenti vengono misconosciuti a favore dei “raccomandati”. Ma in tante altre occasioni si preferisce aggirare le regole invece di reclamarne il rispetto, in una furbesca salvaguardia del particulare. Populismo e demagogia sono mali antichi italiani: nei decenni passati l’uovo del serpente lo hanno covato in tanti. Solo che i vecchi partiti svolgevano anche un ruolo di pedagogia politica che oggi è scomparso.
Se è così, il pericolo diventa che la sacrosanta battaglia contro privilegi e guarentigie si trasformi nell’ennesimo rivolgimento farlocco; nel reclamato cambiamento di carattere rivoluzionario che diventa nient’altro che opportunità per i nuovi potenti di prendere il posto - e magari anche i vizi di coloro che vengono spodestati. Ovviamente sempre in nome e per conto del popolo. Se alla fine è solo una metamorfosi cosmetica e altre élites prendono il posto di quelle vecchie senza che nessuno si impegni in una ricerca anche impietosa dei motivi che hanno prodotto un così vasto risentimento sociale, allora si rischia di assistere ad uno spettacolare esercizio trasformistico. Altro che mutamento.
Dal 1948 ad oggi, salvo alcuni aggiustamenti, la Costituzione italiana non è cambiata. L’articolo 34 della Carta stabilisce che «i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti». Si parla di studi, ma il concetto è estensibile. Quei capaci e meritevoli poi non possono che diventare élites. E’ il ricambio sano che è ineludibile: non la tabula rasa.