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Con la riforma in arrivo, anche gli avvocati potranno far parte dell'ufficio Studi e documentazione del Csm
Ai profani può sembrare un dettaglio, ma le riforme sono fatte quasi sempre dai particolari, più che dalle idee sfolgoranti. Certo è che al Csm cambia una cosa importante, se il ddl delega non sarà sfigurato dal Parlamento: viene introdotta la possibilità che anche avvocati e professori universitari facciano parte dell’ufficio Studi e documentazione.
Roba burocratica? Tutt’altro. È un passaggio a cui tengono molto gli artefici della riforma. Col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, i capidelegazione delle altre forze di maggioranza: il sottosegretario Andrea Giorgis e il responsabile del dipartimento Walter Verini per il Pd, Maria Elena Boschi e Lucia Annibali per Italia Viva (entrambe avvocate), Pietro Grasso e Federico Conte per Leu (un magistrato e un avvocato). Il guardasigilli ha indicato un obiettivo: dismettere il nominifcio. Evitare che il Csm continui a essere una macchina che dissemina compulsivamente incarichi dirigenziali nei Tribunali e nelle Procure non secondo l’attitudine dei candidati ma troppo spesso in base alle “appartenenze correntizie”.
Ed è per questo che, per esempio, il guardasigilli è arrivato a prevedere che qualunque commissione — innanzitutto la Quinta, deputata all’assegnazione dei direttivi — sia formata da consiglieri scelti per sorteggio, e non più con l’indicazione “ponderata” adottata finora. Proprio per diradare le “sovrapposizioni disfunzionali” il Pd, innanzitutto con Giorgis che è un costituzionalista, ha messo sul tavolo la proposta relativa ai ruoli tecnici.
È entrata nel ddl che oggi sarà discusso in Consiglio dei ministri al primo comma dell’articolo 25 e recita così: “Il Csm può assegnare all’ufficio Studi e documentazione ulteriori unità di personale amministrativo nei limiti del ruolo organico della segreteria e dell’ufficio Studi e documentazione, nonché un numero non superiore a otto addetti esterni, individuati mediante procedura selettiva con prova scritta aperta ai professori universitari di ruolo di prima e di seconda fascia, agli avvocati iscritti da almeno dieci anni nel relativo albo e a tutti i magistrati ordinari, i quali sono posti fuori del ruolo organico della magistratura”.
Non vuol dire che a compilare i fascicoli dei candidati alle nomine saranno solo avvocati, certo. Ma è chiaro che se pure, in quegli uffici, a disegnare i profili degli aspiranti procuratori capo cominciasse a esserci qualche esponente del ceto forense e dell’accademia, l’ossessione del “controllo politico” verrebbe stemperata. Verrebbe cioè sdrammatizzato quel meccanismo che probabilmente rende sclerotiche, rigide, se non preordinate quanto meno sottoposte appunto a inesorabile vaglio “politico” tutte le pratiche che preparano le scelte del plenum.
Eppure, non si deve confondere un simile meccanismo con l’idea che gli avvocati diventino, insieme coi professori universitari, i guardiani dell’imparzialità di Palazzo dei Marescialli. Lo spirito giusto con cui leggere la norma inserita nella legge delega è di un riequilibrio nella giurisdizione.
È un concetto che esiste da sempre, quanto meno dall’Assemblea Costituente e da Calamandrei, quando si disegnò il profilo del Consiglio Superiore, composto anche da laici. Ed è anche il principio ispiratore dell’avvocato in Costituzione, che inizia a trovare il sostegno di alcune tra le componenti più lungimiranti della magistratura — basti pensare al segretario di Area Eugenio Albamonte.
La compresenza attiva degli avvocati nell’amministrazione dell’ordine giudiziario non è appunto vigilanza sospettosa. È difesa dell’autonomia della giurisdizione nel suo complesso. E il senso della battaglia condotta sul punto dal Cnf, a partire dall’iniziativa del presidente Andrea Mascherin, consiste proprio in una collaborazione fra magistrati e avvocati rivolta anche a scongiurare future intrusioni della politica in quella sfera di autonomia, innanzitutto nell’autonomia della magistratura.
Se qualcuno teme che con la riforma del Csm si possano insidiare quei principi di autonomia e indipendenza (e non è escluso che il sistema elettorale celi qualche insidia quanto meno al pluralismo delle correnti), forse dalla norma sull’ufficio Studi e documentazione potrebbe desumere che il destino non è segnato. E che in un modo o nell’altro il legislatore ha preparato anche la strada per un nuovo equilibrio, in cui l’avvocatura possa acquisire maggior peso nell’amministrazione dell’ordine giudiziario. Non per imporsi a danno altrui ma proprio per preservarne lo status.